Il terribile male del terremoto in centro Italia, se in tanto dolore ha portato un bene, non è certo quello di una “ripresa dell’edilizia”. Al contrario. Il bene è quello della consapevolezza e dell’attenzione, è un ritrovato senso di comunità da opporre all’egoismo dei pochi
E così l’ad di Volkswagen Martin Winterkorn se ne va con una sessantina di milioni più frattaglie.
L’azienda sostiene che Winterkorn non sapeva dell’imbroglio e anzi lo ringrazia «per il suo elevato contributo» al gruppo, i cui ricavi sono quasi raddoppiati durante la sua guida. Lui però si è eroicamente assunto «la responsabilità delle irregolarità emerse riguardanti i motori diesel».
Capita spesso che gli ad vengano salutati con superliquidazioni anche quando hanno fatto danni, e magari un sacco di gente ci ha rimesso il posto di lavoro. Spesso si tratta di un premio per aver fatto diligentemente il lavoro sporco, o di un compenso per tener loro la bocca cucita su qualche, diciamo, irregolarità.
Dal punto di vista pedagogico, il messaggio è devastante. Anzi, demoniaco.
Il Male –nel caso Volkswagen la salute del pianeta e di chi lo abita- viene premiato con abbondante stercus diaboli. E chi prova invece a fare Bene sempre a lottare con il centesimo.
Può essere che questa sia la strada per guadagnarsi il Regno dei Cieli, e che gli ex ad stramilionari se la vedranno con le fiamme dell’inferno. La remuneratività del Male potrebbe avere una sua paradossale forza simbolica.
Ma qui sulla nostra povera Terra è dura da mandare giù.
E’ tradizione italiana che i media oscurino le notizie sui referendum. Mai come stavolta, però. Contribuirà a rompere il silenzio l’adesione di Italia Nostra a 3 degli 8 referendum indetti da Possibile insieme a Green Italia e Sinistra liberale, Azione civile e Verdi, con la collaborazione dei Radicali e anche dei Giovani Democratici in alcune zone del Sud.
Italia Nostra sosterrà i referendum contro le trivellazioni per la ricerca di petrolio in mare (circa 40, concentrate fra il canale di Sicilia, l’Adriatico centrale e il mar Jonio) e per l’abolizione della legge Obiettivo. Ed esorta le Regioni, chiamate da oggi a decidere sulla delibera, a sostenerli. Se infatti se almeno cinque Regioni delibereranno e depositeranno entro il 30 settembre, la prossima primavera i cittadini potranno esprimersi sui referendum ‘In difesa dei mari italiani’ anche nel caso la raccolta di firme in corso non dovesse raggiungere l’obiettivo delle 500 mila.
L’urgenza, segnala Italia Nostra, è drammatica: “In mancanza di questi referendum tutti i procedimenti per i progetti di esplorazione si realizzeranno in tempi molto brevi, minacciando in modo irreversibile il nostro ecosistema. La maggior parte delle perforazioni, infatti, si svolgono entro le 12 miglia dalla linea di costa, nel Mare Adriatico addirittura 5 miglia”. I sindaci del Salento si sono a loro volta mobilitati. Hanno già firmato il Presidente della Regione Puglia Michele Emiliano, Giusi Nicolini, sindaca di Lampedusa, e il sindaco di Messina.
Oltre ai referendum ambientali, Possibile promuove altri 5 importanti quesiti sui temi del lavoro, della democrazia e della scuola: contro il demansionamento e i licenziamenti facili, contro i capilista bloccati e i presidi-manager. Li trovate tutti qui.
La raccolta di firme continuerà in tutta Italia per altri dieci giorni, l’oscuramento mediatico non ha impedito la stramobilitazione,con centinaia di migliaia di firme: l’obiettivo è vicino. In alcune realtà metropolitane i prossimi 19-20 settembre è programmato un “week end per la democrazia”, con tavoli referendari diffusi.
Tanti parlano e scrivono di Liguria in questi giorni. Direi in extremis. In questo blog trovate più di 20 post sull’argomento. Il primo è del 2008.
Ne ho scritto molto perché il caso ligure è paradigmatico, e da tempo. Un laboratorio, come si dice. In troppi se ne accorgono solo ora.
Il fatto è che la Liguria è un’Italia in piccolo: territorio fragile e bellissimo, una dorsale montuosa a picco nel mare, devastato da decenni di malapolitica. Lì le larghe intese ci sono da tanto e si chiamano Partito Trasversale del Cemento per Fare Palanche (in pochi ai danni di tutti). La Liguria è Nord ma è anche Sud: per i numeri sconfortanti dell’occupazione, per la fatica dello sviluppo, per la forza del ricatto politico e del voto di scambio, per gli affari consistenti di ‘ndrine e cosche, per i reati ambientali e gli ecomostri, per la drammaticità dei mutamenti climatici.
In Liguria si vede bene un modello a fine corsa.
Il 31 maggio la Liguria andrà al voto regionale e i commenti di questi giorni si esercitano sul cosiddetto voto utile, sul potenziale di una nuova formazione politica -quella per Luca Pastorino presidente- “a sinistra del Pd”. Sul rischio che a causa di questa formazione “rossissima” o meglio “rosso-rosa-verde” la regione “rossa” non sia più rossa (se è per questo non lo è da un sacco di tempo) e si consegni al centrodestra di Giovanni Toti. Sul rischio di dover passare dal monocolore (grigio cemento) a larghe intese di nome e non solo di fatto: quelle sono al governo da tanti anni, un “partito della regione” che ha procurato gravissimi danni. Sulle varie possibili future geometrie politiche.
Direi che la questione è un’altra, e molto più significativa per la Liguria e per tutti. Si tratta precisamente di quel “cambio di paradigma” di cui si parla da un bel po’. Detto alla buona, si tratta di questo: di sperimentare la possibilità di vivere con il proprio territorio, e non contro il territorio. Di cura e valorizzazione di bellezza e risorse ambientali -langerianamente, di portare la carità (I care) nella politica- per farne occasione di lavoro e di sviluppo. Di fare un passetto indietro, tornando a prima della rapallizzazione, della glassatura della riviera, dei porti e porticcioli, dell’abbandono, del disboscamento, della distruzione dei muretti a secco, esoscheletro che “teneva su” le montagne, per poter finalmente andare avanti. Di conservare quanto serve per progredire. Di ri-radicarsi. Di sposare le nuove tecnologie pulite alla sapienza di un amore antico.
E se riuscisse in Liguria, potrebbe riuscire dappertutto.
Ecco l’importanza della sfida ligure.
Stretti tra monti aspri e un mare aperto e minaccioso, i liguri hanno scorza e tempra. Gente non facile da conquistare. Sempre pragmaticamente pronti a fare affari, anche trattando con i politici: ma con Genova che annega ogni autunno, i terrazzamenti che franano in mare, quel paio di piane minacciate da speculazioni colossali, ormai si è capito che le palanche vanno in tasca solo a pochi a danno di tutti. Non ci credono più. Gattopardescamente, il Partito trasversale del Cemento cambia le facce ma non gli intenti: sfruttare, speculare, continuare a distruggere quel territorio fragile e spettacolare.
Detto da una “foresta” innamorata ligure d’adozione: quello che sta capitando in Liguria è paradigmatico per tanti motivi. Quella terra si presta bene a rappresentare l’intero territorio italiano, con la sua bellezza devastata e costantemente sotto scacco, e per le grandi potenzialità, tutte da esplorare, di una decisa svolta ambientale, con importanti ricadute economiche e occupazionali; l’altra ragione è che con il suo Partito traversale del Cemento, la Liguria è stata pioniera del partito-nazione orientato al business, ma oggi può diventare il laboratorio di una decisa inversione di rotta, in cui le soluzioni politiche nascono dai cittadini che si auto-organizzano localmente per difendere i beni comuni.
Al netto delle irregolarità verificate nelle primarie per l’individuazione del candidato presidente del centrosinistra, la rivolta di sinistra in corso contro la candidatura di Raffaella Paita, vincitrice contro Sergio Cofferati, può diventare un catalizzatore del cambiamento politico. Sostenuta anche da parte del centrodestra, che al momento non ha ancora individuato il suo candidato presidente, Paita si presenta quasi come candidata unica “nazarena” con ottime chance di vittoria. Risultato contendibile solo a un patto: che un’eventuale lista alternativa sappia opporre un programma fortemente centrato su ambiente-lavoro-diritti, e declinato minuziosamente in chiave locale: i problemi delle comunità della valle del Magra non sono gli stessi di quelle della Piana di Albenga, di Genova o del Savonese.
L’altra cosa importante è che, langerianamente, si insista più sui temi, sui problemi e sulle soluzioni che sulla coloritura di sinistra. E che la nuova iniziativa politica non diventi occasione di riciclo di personalità che cercano un modo per tornare in pista, il che darebbe un’idea di “ritorno al passato” elettoralmente poco premiante.
I nomi, dicono i promotori di #Liguriachevorrei, verranno dopo. Ma è importante che il candidato presidente –oltre a essere ligure: i “foresti” avrebbero poche chance- possa opporre a Raffaella Paita, donna tutta di apparato, una convincente storia civica, e una capacità di visione strategica per la Liguria. Un nome che circola, quello di Ferruccio Sansa, giornalista del Fatto Quotidiano, figlio di un magistrato che fu anche sindaco di Genova e autore con Marco Preve del bel saggio “Il partito del cemento” (Chiarelettere), sembra rispondere a queste caratteristiche. Oltre a piacere molto al Movimento 5 Stelle e a Beppe Grillo: e in Liguria non è cosa da poco.
#SaveLigury
Aggiornamento 5 febbraio: un altro bellissimo nome che circola è quello di Anna Canepa.
Ligure, magistrato, attualmente sostituto procuratore presso la Direzione Nazionale Antimafia a Roma. Ha conseguito la laurea in giurisprudenza presso l’università di Genova, dal 1989 svolge le funzioni di Sostituto Procuratore della Repubblica, dapprima in Sicilia, quindi a Genova, occupandosi di reati di criminalità organizzata presso la Direzione Distrettuale antimafia e successivamente poi al Dipartimento Criminalità Organizzata e Terrorismo. Nel 2008 è ritornata in Sicilia, applicata volontariamente alla Procura della Repubblica di Gela. Già vicepresidente dell’Associazione Nazionale Magistrati, attualmente Segretario Generale di Magistratura Democratica.
aggiornamento 14 maggio: io ve l’avevo detto per tempo
25 novembre: la stessa violenza sulle donne e sulla Terra
Quella sulle donne e quella sulla Terra sono manifestazioni della stessa violenza: come dice Winnie Byanyma bacchettando il #G20: i potenti della terra non possono permettersi di ignorare che le due maggiori sfide del nostro tempo sono la disparità di genere e il cambio climatico.
La proposta è che il prossimo 25 novembre, Giornata internazionale contro la violenza sulle donne, si tenga conto della connessione diretta fra violenza contro le donne e violenza contro il Pianeta, e si raccolga la sfida nella sua complessità, coinvolgendo il massimo numero di altre e altri.
All’assunzione del tema nella data fortemente simbolica del 25 novembre potranno seguire altre iniziative. Un’importante occasione potrebbe essere il prossimo il 14 febbraio, in occasione di One Billion Rising: il tema quest’anno è “rivoluzione”, perfettamente in sintonia con lo sforzo per un cambio di paradigma.
Lo spirito dell’iniziativa è bene illustrato da Vandana Shiva:
“Ho più volte sostenuto che lo stupro della Terra e lo stupro delle donna sono intimamente connessi – sia metaforicamente, nel modo di cui si costruisce la visione del mondo, sia materialmente: nel modo in cui si costruiscono le vite quotidiane delle donne. (esiste una stretta) connessione tra lo sviluppo di politiche economiche violente ed inique, e l’aumento di crimini contro le donne. (…) L’idea di una crescita illimitata in un mondo limitato può mantenersi solo attraverso il furto delle risorse del debole da parte del potente. E il furto di risorse, essenziale per la crescita, crea una cultura dello stupro: lo stupro della terra, delle economie locali autosostenibili, lo stupro delle donne. (…) Dobbiamo cambiare il paradigma dominante: porre fine alla violenza contro le donne significa anche superare l’economia violenta a favore di economie pacifiche e non violente, capaci di rispettare le donne e il Pianeta”.
Chi promuove questa azione? Non c’è una precisa maternità dell’idea: chiediamo di riconoscere l’iniziativa come nata spontaneamente da confronti diretti e sui social network. Chi approva i contenuti li raccolga, trattandoli come preferisce e facendo il possibile per diffondere e rilanciare (sui blog, social network, via email ecc)
Ecco gli hashtag da rilanciare:
#25novDonnePianeta #25novWomenforPlanet
#NoPlanetB #NonesistePianetaB
Una chiamata delle donne ad azioni urgenti per il clima anche in questa dichiarazione approvata un anno fa dall’IWECI (International Women’s Earth and Climate Summit), c integralmente recitata in italiano in questo video.
Il 25 novembre mobilitiamoci contro la violenza sulle donne e sulla Terra.
Con l’acqua alla gola: i “veri uomini” non si occupano di ambiente
Penso con angoscia all’amica parrucchiera di Ameglia, e al ferramenta, e a tutti i cittadini della foce del Magra a cui è stato detto di salire ai piani alti delle case perché l’onda di piena è attesa a ore: l’ultima volta si portò via il ponte che collega alla Versilia. Guardo le immagini notturne di Chiavari sott’acqua, due dispersi nell’entroterra, la loro casa è stata travolta da una frana. Penso a tutta la Liguria che si sgretola, diamo l’allarme da anni ma il partito del cemento non si arrende, il famoso progetto Marinella (un megaporto turistico da 1000 posti barca, ecomostro escavato nell’estuario del fiume, progetto “rosso”, protagonista Monte dei Paschi) non è ancora stato ritirato. Penso alla rabbia dei carrarini, gente di carattere che non si lascia mettere sotto i piedi. Penso al decreto Sblocca Italia, che garantisce la continuità di queste logiche di “sviluppo” distruttivo, mangi oggi e domani crepi.
Penso al ministro dell’Ambiente (qualcuno ricorda il suo nome?): il dottor Gianluca Galletti, già commercialista, zero competenze in materia, comme il faut. Ministero di nessun conto, buono giusto per le spartizioni cencelliche, come tutte le istituzioni ambientali in questo Paese, che invece dovrebbero stare al centro delle nostre politiche. Penso alla resistente incultura, continuare “virilmente” a considerare marginali le questioni ambientali, quando l’ONU dà l’allarme definitivo, ultima chiamata sui gas serra e sui mutamenti climatici: il profetico rapporto del club di Roma, “I limiti dello sviluppo”, è del 1972.
Guardo con orrore il mio rosmarino fiorito, le zagare sul terrazzo a metà novembre, il basilico che non smette di “buttare” sotto una pioggia battente alla “Blade Runner”. Vedo i negozi di Milano con le porte spalancate per favorire lo shopping nonostante i divieti, riscaldamenti a palla, assurda dispersione di calore mentre siamo sotto il monsone permanente, sudi con maglietta e impermeabilino, le calze danno fastidio, di notte ci sono 13 gradi.
Vedo le prime pagine sul patto del Nazareno, e pure le seconde, le terze e le quarte. E il mantra della “crescita” con cui continuiamo a ipnotizzarci. Ma sai anche che se provassi ancora una volta ad andare off topic, se invitassi a distrarre lo sguardo dal prossimo incontro tra Renzi e Berlusconi, dalle insofferenze di Raffaele Fitto, dalle manovre per il Quirinale, per richiamare alla necessità di una rivoluzione non più rinviabile -“rivoluzione sostenibile”, la chiamò il club di Roma: fine dello sviluppismo*, ambiente al centro, nuovi paradigmi-, ti guarderebbero ancora una volta come una noiosa rimbambita.
Cassandra continua a sgolarsi, ma non la ascolta nessuno.
* Secondo il rapporto “I limiti dello sviluppo” (1972) è possibile modificare i tassi di sviluppo e giungere ad una condizione di stabilità ecologica ed economica, sostenibile anche nel lontano futuro. Lo stato di equilibrio globale dovrebbe essere progettato in modo che le necessità di ciascuna persona sulla terra siano soddisfatte, e ciascuno abbia uguali opportunità di realizzare il proprio potenziale umano.
Nel febbraio scorso avevo letto che l’estate sarebbe stata “bollente e secca”, fonte Cnr.
Ho temuto un nuovo 2003, condizionatori in tilt e vecchietti tutto il giorno al super per evitare malori. L’estate invece è stata nella norma al Sud ed eccezionalmente fredda e bagnata al Nord-Centronord, una fase ciclonica di cui non si vede la fine. Annata spaventosa per il vino, per il pesto -una specie di peronospora sta uccidendo il magnifico basilico ligure- e per le articolazioni.
Nel mio piccolo, date le previsioni e data la fonte -anche altri siti promettevano calura- ho deciso di abbreviare la mia permanenza al Sud, che avrei voluto ben più lunga, per trascorrere il più del tempo in collina al Centronord, in una casa ventilata e dalle mura spesse. Mentre sono qui che mi cospargo di antimuffa, penso che l’anno prossimo -non bastasse la crisi- potrebbe essere tragico per l’industria del turismo centrosettentrionale. 10 villeggianti per mq in Salento e Liguria deserta. Sempre nel mio piccolo, me il Nord non mi becca più.
Questo per dire che con le previsioni meteo non si scherza. Che sono diventate a pieno titolo, specie in un Paese come il nostro, turismo e agroalimentare in testa, un fattore economico di rilievo. Quindi, mettiamoci d’accordo una volta per tutte: se è vero, come pare, che oltre i tre giorni il meteo non si può prevedere, evitiamo di parlare di “tendenze” e di strologare sugli anticicloni di luglio e agosto. Tanto più che ho sentito con le mie orecchie un albergatore disperato progettare la costruzione di siti meteo autogestiti che promettano climi ideali in fase prenotazioni.
Sarebbe giusto dare qualche regola al settore previsioni. Affidandoci semmai alle macumbe, che a quanto asserisce il senatore Calderoli funzionano piuttosto bene.
Guardo con disperazione la Liguria franare in mare, e mi infurio con la politica di destra e di sinistra (moltissimo di sinistra) che ha sfruttato quel territorio fragile e meraviglioso fino a farne fondi di caffè: concessioni di edificabilità su terreni friabili e sulle rive dei fiumi, ville, villette, porti e porticcioli (che deviano le correnti marine), visto i posti barca sono una miniera d’oro, incuria assoluta, enti parco affidati a funzionari di partito totalmente incompetenti e interessati molto più alle prebende che ai parchi, progetti assurdi e faraonici che sono ancora lì sulle scrivanie dei sindaci, molti dei quali non si arrendono neanche di fronte ai morti e continuano a chiamare “sviluppo” la distruzione di ciò che resta, in cambio di oneri di urbanizzazione e di tutto il resto: in una parola, palanchi.
Mi lamento su Facebook, e uno commenta: “basta dare la colpa ai politici, la colpa è dei liguri”.
Intanto parlare di “liguri” ha poco senso: ci sono liguri speculatori e liguri perbene. Allora cerchiamo di essere più precisi: la colpa, semmai, è di una parte dei liguri che hanno svenduto il proprio ambito territorio agli odiati foresti, hanno pagato mazzette per ottenere l’edificabilità, hanno commesso abusi edilizi, hanno disboscato selvaggiamente, insomma hanno scelto il tutto-e-subito, poi se domani ti cade in testa una collina vedremo.
I liguri sono anche quel popolo che ha saputo tenerlo su per secoli, quel territorio naturalmente pericolante, lavorandolo pazientemente, fornendogli l’esoscheletro dei muri a secco, oltre che preservando lo scheletro naturale delle piante con le loro radici. Poi, quando i soldi sono diventata l’unica misura per tutti, i contadini hanno abbandonato le terre, e tanti liguri i propri valori antichi.
Ma ammettiamo anche che quell’amico FB abbia ragione, che le colpe prevalenti siano “dei liguri”. I quali, magari, non hanno fatto diversamente dai veneti e dai lucani, solo che il loro territorio è più fragile e più desiderato.
Ebbene, questo non solleva la politica dalle sue gravi colpe. Riconducibili essenzialmente a una: aderire del tutto alla logica dei palanchi, rappresentarla pienamente, sprezzare ogni tentativo di salvaguardia ambientale, abdicare–mi viene da ridere- da ogni compito pedagogico nei confronti della popolazione, che in nessun modo è stata scoraggiata nei suoi intenti speculativi. Anzi: dove c’è stato da mangiare si è mangiato.
E allora: è colpa dei liguri o della politica?
E’ un bel po’ che lo dico a Claudio Burlando, presidente Pd di Regione Liguria: è ora di cambiare musica.
Perché se andiamo avanti così presto non ci sarà più una Liguria, né una musica da suonare.
Questa di cui vedete uno scorcio è la Chiesa Rupestre di Pizzo Calabro, scavata nel tufo, affacciata su una piccola baia turchese. Pochissimi la conoscono: varrebbe un viaggio da Oltreoceano. Ci penso continuamente da quando mi ci hanno portata. Pensiero che è fonte di energia e di gioia.
Dappertutto nel nostro Paese, a pochi passi dalle nostre case, abbiamo bellezza e bontà. Mi sono chiesta com’è che è capitato proprio da noi. Com’è avvenuto che un terzo di tutte le bellezze artistiche del pianeta siano state edificate sulla nostra penisola.
Credo che sia andata così: che le bellezze naturali erano tali e tante, così varie e sovrabbondanti, che chiunque sia nato in mezzo a tanto splendore o si sia trovato a passare di qui ha provato a emularle e a gareggiare invidiosamente, arrivando spesso a sfiorare il sublime.
Se noi perdiamo il senso della bellezza, se, per esempio, e come in gran parte è accaduto, ci affidiamo alla misura unica del denaro, perdiamo tutto. Ma se lo riguadagnamo, e siamo in tempo per farlo, ricominceremo a primeggiare.
Qualunque cosa facciamo, di qualunque cosa ci occupiamo, e lo dico in particolare alle amiche e agli amici del Sud, con tutta la sua magia, aggrappiamoci alla bellezza, contempliamola, fidiamoci dell’istinto che ne abbiamo, produciamola, offriamone al mondo.
Nutriamo il pianeta!
Questo è il mio augurio -e il mio manifesto politico- per il 2014.
p.s. Si chiama proprio “La Grande Bellezza” il film di Paolo Sorrentino che sta conquistando le platee di tutto il mondo. E’ un segno, ed è un auspicio. Jep Gambardella torna alle sue radici e si aggrappa alla bellezza per rinascere. E’ quello che dobbiamo fare tutti.