irene vilar

irene vilar

La portoricana Irene Vilar ha appena 15 anni quando incontra il professore cinquantenne che diventerà suo marito-pigmalione-padrone. Uno che si autoproclama “femminista”. Che adora le donne libere, giovani e “senza cicatrici”, e non vuole che la sua Irenita si faccia incastrare da un figlio.
Lei non lo delude. “Dimenticando” la pillola resta ripetutamente incinta. Ma se facesse il bambino perderebbe il suo “amore”. Ed ecco allora 15 aborti in 15 anni, uno ogni 8 mesi, alternati a 7 tentativi di suicidio: contabilità di una storia estrema che Irene, oggi madre di 2 bambine nate dal secondo matrimonio oltre che editor e scrittrice di successo, ha deciso di raccontare in “Scritto col mio sangue” (Corbaccio, titolo originale “Impossible Motherhood. Testimony of an Abortion Addict”: Maternità impossibile-Testimonianza di una drogata dell’aborto).
Il libro è stato respinto da 51 case editrici prima di essere dato alle stampe, e ha sconcertato e diviso il pubblico americano, indignando i pro-life e mettendo in serie difficoltà i pro-choice. Storia respingente, cronaca meticolosa di un’autodistruzione, di un ininterrotto “aborto di sé”, fino a quella che Irene chiama redenzione. (nel portale di Io donna trovate un’intervista filmata a Irene Vilar, http://www.leiweb.it/multimedia/video.action?vxSiteId=a298a49f-14ef-4e30-956e-e1fc7404701f&vxChannel=Ultime%2520novita&vxClipId=2711_a7403a10-4ee9-11df-b4ec-00144f486ba6&vxBitrate=300)

Gli aborti ripetuti in realtà non sono rari. Tra le ragazzine inglesi sono aumentati del 70 per cento in 20 anni: due, tre, anche otto volte prima del raggiungimento della maggiore età. Nell’Europa dell’Est l’aborto è usato frequentemente alla stregua di un contraccettivo. Anche fra le italiane la quota di aborti reiterati supera il 21 per cento.

Irene ha alle spalle una complessissima vicenda familiare: madre abusata, depressa e imbottita di Valium, sterilizzata a forza nel corso dei test sulla contraccezione condotti dagli americani in Porto Rico, e infine suicida; padre alcolista e giocatore d’azzardo; due fratelli tossici. La dipendenza è nel suo Dna. Lei dipenderà dalla patologica crudeltà di un uomo, carnefice perfetto per una ragazzina sofferente. Ma anche dal senso di felicità e di pienezza della gravidanza, gioia a cui sua madre era stata costretta a rinunciare. Ogni volta la gestazione viene interrotta per avviarne subito un’altra. Un tragico e ripetuto on-off, gesto di inconsapevole ribellione ai diktat del suo uomo. “Ti terrò qualche mese” sussurra Irene al bambino che le si muove nel grembo “poi si vedrà. Almeno ti avrò avuto per un po’”.

Il libro di Irene è una lettera a 15 bambini mai nati, e anche alle due figlie che è riuscita a mettere al mondo, nella speranza che a loro non capiti mai niente di simile. Ma nel suo svolgimento paradossale racconta qualcosa che è di tutte: il freddo di una vita interrotta ai suoi inizi; la dipendenza, fino al plagio, dall’anaffettività e dal machismo di un uomo; la responsabilità maschile, sempre taciuta, nell’aborto. E anche la centralità del corpo nell’esperienza femminile, e l’ambiguità del desiderio di maternità, che non si fa mai padroneggiare del tutto e spesso sfugge sintomaticamente a ogni strategia contraccettiva: “Ogni volta che mi scoprivo incinta ero presa dall’euforia e dalla disperazione insieme”.

Forse anche voi avete vissuto o conoscete storie come questa. Potete raccontarle qui, se volete. A voi stesse e alle altre.