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Certo: mica si poteva andare avanti così, con questa cosa barbara e pelosa delle donne che andavano in pensione a 60 anni perché oltre al lavoro fuori casa avevano tutto il resto da sbrigare, e da noi welfare non ce n’è. Finalmente pari. Ora anche le donne –a cominciare dal settore pubblico- andranno in pensione a 65 anni, sempre con tutto il resto da fare e il welfare che non c’è. Forse prima o poi ci sarà, ma il Fondo “strategico” per le donne resta per l’appunto solo strategico.
La scomparsa delle nonne (e la crocifissione delle mamme). Visto che nei nidi entra un bambino su 8, una quota enorme di lavoro d’amore, mai preso in considerazione dai conti economici, che sparirà dal mercato come d’incanto, nel tempo di uno scalone. Speriamo nelle bisnonne, sempre che ci sia qualcuna a prendersi cura della loro salute.
Questa è una legge che “fa chiagnere”, per dirla con Filumena. Civile, moderna, equa. E’ il resto che non gira. Ma i nostri uomini sono straordinariamente devoti alla Madonna Equilibrista, Madre della Conciliazione. Certi che saprà sempre trovare la quadra. E’ che ci amano e ci stimano troppo, vedete? Sono mediterranei.

Che le italiane vivano in questa bizzarra situazione, che abbiano questa mania della polvere, che lavorino più di tutte le altre donne del West, che consentano ai loro uomini questo infantilismo irriducibile e mediorientale, e di non muovere un dito in casa, oltre che agli assessori di fare i galli con le impiegate, ai premier di fischiare alle crocerossine, ai media di metterle in mutande, ai luoghi di decisione di escluderle, all’Europa non importa un accidente. Fatti nostri.
Qualcuno venga ancora a dirmi che le donne sono una risorsa per il Paese, che se lavorassero di più il Pil aumenterebbe, che la loro differenza è un plus, che con cda più femminili le perfomance delle aziende migliorano, e io imbraccio il kalashnikov. In Rwanda l’hanno capito, qui non c’è verso. E’ che ci amano troppo. Ci adorano. Non sarebbe meglio che potessimo decidere qualcosa anche noi, che ci amiamo molto di meno?

Contemplando il nostro mistero doloroso, un paio di cose si possono dire. La prima veramente dovrebbero dirla i maschi, ragionando non in teoria ma a partire da sé. Per parlarci anzitutto del loro patologico attaccamento al potere, della loro incapacità di vivere senza questo esoscheletro. Di come facciano a non provare vergogna nel tagliare metodicamente fuori le donne per decidere tutto da soli: recito ogni mattina il Salmo deprecatorio per la giunta lombarda, 19 a 1. Della loro infantile e caparbia incapacità di fare un passo indietro, di ascoltare la parola femminile e di accettarne l’autorità senza sentirsene diminuiti: se ce l’ha fatta Socrate con Diotima, e più recentemente Papa Ratzinger (sarà perché è tedesco?), quando dice che le donne devono poter accedere “a posti di responsabilità per ispirare la politica delle nazioni… promuovendo soluzioni innovative ai problemi economici e sociali”, forse ce la possono fare tutti. Ce la fanno un po’ di più i giovani, a quanto pare: la strana coppia alla “Cougar Town”, ragazzo con signora, è solo l’epifenomeno sexy di una santa alleanza contro la prepotenza escludente dei vecchi maschi.

Ma qualcosa andrebbe detto e fatto anche dalle donne. In questi giorni a Milano c’è una supermobilitazione di cervelli femminili intorno al “caso” Paolo Massari, assessore accusato di molestie. Vere eccellenze del mondo della cultura e delle professioni, in città per fortuna ne abbiamo tante, che si agitano per un tale che come si dice qui avrebbe fatto un po’ “il ganassa” con qualche signorina, e che mia nonna avrebbe saputo come sistemare. E progettano addirittura un “Manifesto contro il gallismo”. Gesù. Poi il megaconvegno delle Pari o Dispare, gran parterre convocato a dibattere su “Donne nei media e in pubblicità: per una diversa immagine delle donne in Italia” (un’altra volta!).
Non sarebbe meglio che applicassero lo sguardo a orizzonti più grandi, con obiettivi a misura della loro competenza? Perché investire tante energie preziose per un avvilente minimo sindacale che ci porta indietro? Volendo, ci sarebbe un sindaco da fare. Un welfare da inventare. L’economia da sistemare. Il mondo da ribaltare. Perché tanta automoderazione, e nessuna vera riflessione sul potere?

La parola potere non è mai piaciuta alle donne, in particolare a quelle di sinistra. Ci hanno sempre visto qualcosa di osceno, di violento, di alienante, di sporco. C’è sempre stato bisogno di qualche foglia di fico per riuscire a parlarne: non è il potere, che si vorrebbe, ma il “poter fare”, il “potere per”… Per l’altro, in breve, in nome di quella capacità di relazione che è al centro del “genio femminile”, come lo chiamava Giovanni Paolo II (sarà perché era polacco?).
D’accordo, allora anziché di “potere” si parli di “governo”. Della possibilità di partecipare alle decisioni. Devi esserci, perché troppo spesso quello che viene deciso senza te è anche deciso contro di te. Per esempio, il fatto che sulla famiglia si continui a non investire.
Forse parlando di governo sarebbe più tutto semplice. Non è una questione solo nominalistica. Nella parola governo l’altro è incluso, risuona la vita, la responsabilità, il servizio, quell’affaccendarsi –il ri-governare– di cui le donne hanno così grande esperienza. Si intravede un modo di condurre le cose, un segno di autorità con cui le donne hanno più dimestichezza.
Ma qualunque nome le dai, oggi la cosa è questa, non il gallismo, non le chiappe nude, e non può più essere elusa. Si tratta di capire a fondo e in tutti i modi –con l’autocoscienza, l’analisi, il self help- che cosa ci trattiene sulla soglia, complici piagnone dei buttafuori. Si tratta di individuare i modelli per esserci come vogliamo esserci. Via tutte queste insopportabili balle della parità, della conciliazione, degli orari, del gender balance, tutte ipocrite invenzioni maschili, roba che non è mai servita e adesso meno che mai.
E se la democrazia non basta, si inventerà qualcosa d’altro.

pubbicato su Il Foglio il 15 giugno 2010