La farfalla di Belen (“parpaja topola”, come la chiamerebbe Dario Fo).

Sembra incredibile, ma eccoci ancora qui tra Miss Patata, il (ex) presidente culomane dell’Ordine dei giornalisti, i siliconi strizzati nei corpetti in prima serata, il brivido della senza-slip.

Pronta a scommettere che di qui alle prossime elezioni sarà un’escalation. Perché mentre sono lì -tutti maschi- a congegnare la nuova legge elettorale, e perfino a escogitare rimpastini, quote e quotine per tenerci buone, non smettono di provare a infiacchirci rimettendoci in mutande.

Il Paese degli uomini che decidono cercherà nuovamente di indebolirci, rappresentandoci nei modi che sappiamo: carne fresca, minoranza, vittime, incapaci, impolitiche, materia prima indifferenziata. Gli stereotipi servono proprio a questo, a infiacchire l’autoconsapevolezza, a indurre smarrimento e spaesamento.

Ci offriranno il solito specchio diminutivo. Dovremo dircelo l’un l’altra, ogni mattina, che siamo forti e capaci.

Saremo assalite tutte le paure che sappiamo: di non saperne abbastanza, di non farcela, di non essere politiche.

E allora occhio, e pronte alla guerra. La farfalla di Belen è politica.