Ho acceso solo a un certo punto, i primi venti minuti me li sono persi. Di solito i contenitori della domenica pomeriggio non li guardo, ma stava montando una certa agitazione online.

Barbara D’Urso strizzata in un little black dress, maschera fissa, compresa, finto-neutra.  Silvio Berlusconi nel suo solito doppio petto, rigido e un po’ gonfio, la faccia sfigurata e inespressiva a seguito di un numero impressionante di interventi, versione “sono un padre di famiglia, come voi” e “lo faccio per il Paese, contro il rischio comunismo“, se almeno avesse vinto Renzi, ma c’è Bersani.

D’Urso si comporta come una spalla attiva. Non intervista, dà la battuta. Il copione appare concordato fin nei dettagli (“Poi mi domandi…” si sente dire lui, mentre lo studio stacca per la pubblicità). L’esito è una cosa cinese, albanese, rumena (altro che comunismo). Lei mostra di permettersi un piccolo “scarto”, dicendogli che “le donne si sono arrabbiate con lui”. Gli dà l’occasione di scusarsi con i suoi elettori, di dire che “in quel periodo -quello del Bunga-Bunga, ndr- ero molto solo: avevo divorziato, era morta mia madre, poi mia sorella…”. Gli permette di attaccare frontalmente la magistratura milanese, senza nemmeno provare a prendere le distanze. Gli lascia dire che “Ruby io l’ho salvata dalla prostituzione” (D’Urso tra l’altro è testimone a quel processo). Garantisce che con lei Lui è stato sempre corretto, insomma, eroicamente non ci ha mai provato. Parla di Marina e Piersilvio come di “persone straordinarie”. “Mi si è fidanzato?” gli domanda, ostentando una notevole intimità. Lui ammette ufficialmente (che scoop!) e si intenerisce. Lei ci dà dentro: “Che carino!” (sic).

Non una sola domanda sulle leggi ad personam, sull’inefficienza del governo, sulla deflagrazione del Pdl, sulla corruzione e sugli scandali che l’hanno travolto, sulla negazione della crisi fino all’ultimo, sul conflitto di interessi, sulle promesse disattese, sul “contratto con gli italiani”, sul milione di posti di lavoro che non sono mai arrivati, sulle tasse che non sono mai state ridotte, sulle favorite nei listini elettorali, sul Porcellum, sulla devastazione dell’immagine internazionale, sull’Europa che stigmatizza la sua ridiscesa in campo. Una cornice zuccherosa e natalizia (mancava solo il sottofondo di “Jingle bells”) a quell’attesissimo “Abolirò l’Imu”, copia scolorità dell’ “abolirò l’Ici” del 2006, ma pur sempre appealing, con la gente che alla prima settimana del mese comincia già a fare i conti. Con gran botto finale: il filmato di quel discorso del 2007, in un inglese scolastico, al Congresso Usa. Che, come sottolinea lui, gli guadagnò ben 7 standing ovation.

Di standing ovation nello studio di Domenica Live non se ne vedono. Gli addetti ai lavori fanno partire l’applauso, i figuranti in platea seguono stancamente. Non è che hanno tanta voglia di acclamare, anche se a pagamento.

Barbara D’Urso ha offerto una performance inquietante. Dovrebbe chiedersi come mai non si è sentita di porre nemmeno una domanda scomoda, o almeno non del tutto compiacente. Perché ha ostentato i suoi legami con l’intervistato. Perché ha esaltato le qualità umane dei suoi congiunti. Perché ha evitato ogni contraddittorio, accettando risposte che lo richiedevano. Perché tra tutti i filmati trasmissibili ha scelto il più celebrativo. Perché, se proprio non se la sentiva, visto che quel signore le dà un cospicuo stipendio e la cosa l’avrebbe messa in difficoltà, non ha lasciato che fosse un/a giornalista a intervistarlo, dato che lei non lo è. Vorrei chiederle se si rende conto della delicatezza della questione, che non riguarda lei e il suo datore del lavoro, ma i destini di questo Paese, quelli dei nostri figli, anche dei suoi. Che non è uno show della domenica, ma che richiede coraggio e senso di responsabilità.

Questa è l’intervista che vorrei fare a Barbara D’Urso.

P.S. (ma non è affatto un p.s., semmai sarebbe un a.s.): non essendo stata mai approvata la legge sul conflitto di interessi, si dovrà congegnare un sistema per garantire un’effettiva par condicio tra competitor politici, uno dei quali possiede direttamente o influenza cospicua parte di tv e carta stampata, e si appresta a corazzarsi anche in rete.