Un giornalista, Giorgio Sturlese Tosi, invita noi colleghi a una riflessione:
“Molti inevitabilmente stanno in questi giorni sottolineando il fenomeno dei suicidi per motivi economici. Fatte salve tutte le giuste considerazioni sulla necessità di fornire una corretta informazione, soprattutto in un momento difficile come questo, temo che ci stiamo un pò tutti rendendo partecipi di un fenomeno che rischia di avere conseguenze gravissime sui lettori più fragili. Limitarsi ad elencare ogni nuova morte sta già provocando una suggestione che porta al triste fenomeno dell’emulazione.
Un titolo non può mai valere la vita di una persona. Il compito di un bravo cronista, credo, sarebbe quello di dare pure la notizia, cercando però di approfondirla, chiedendosi davvero chi è e perché si è tolto la vita un imprenditore o un lavoratore disoccupato. dovremmo avere la voglia di tornare a fare il nostro lavoro, anticipando l’evento. Capire quali sono le situazioni di emergenza, svelare se vi sono eventuali comportamenti illegittimi da parte di chi licenzia o chi costringe a chiudere, smuovere le coscienze e le autorità per sbloccare sistemi delittuosi come i pagamenti da parte dello Stato. Insomma, anticipare e cercare in qualche modo di offrire un’alternativa a quegli episodi che portano al suicidio di una vittima della crisi.
Limitarsi a riportare la notizia, senza approfondirla, è molto facile, ma serve a poco e rischia davvero di renderci complici di queste tragedie”.
Al di là del cosiddetto “effetto Werther“, il fatto, cioè, che in soggetti particolarmente fragili e in difficoltà la notizia della catena di suicidi possa offrire lo spunto definitivo, la cosa pericolosa è l’assuefazione -un po’ quello che capita per i femminicidi-: è “normale” che capiti, è uno dei segni del tempo, non ci si può fare nulla. Quando invece ci si può fare moltissimo.
Metto insieme le considerazioni del collega con una riflessione di Giulio Sapelli nel sui recentissimo pamphlet “L’inverno di Monti” (Guerini e associati), là dove, dopo aver assimilato la figura del premier a quella del dictator romano, “tiranno” pro tempore -massimo sei mesi- dai poteri illimitati, nominato “in circostanze gravissime” e quando “un pericolo tangibile” minacciava Roma, osserva che invece oggi ci sarebbe “bisogno più che mai di politica, non di sottrazione di continui lembi di legittimazione alla politica, che è ineliminabile… La conseguenza di questo rifiuto della soluzione politica è stata non soltato l’aumento della sofferenza sociale, ma l’emergere di una “crudeltà istituzionale” sino a oggi inusitata”.
Oggi leggiamo che una famiglia su due è in difficoltà: non è questione di pochi.
“I professori italici” continua Sapelli, che insegna Storia Economica all’Università degli Studi di Milano “vivono nell’iperuranio dell’astrattezza… concepiscono i soggetti umani come cavie e non come persone”. E stigmatizzando la loro “autostima illimitata”, Sapelli osserva che “le persone non solo soffrono, ma si ribellano e dilaniano il loro essere se colui che decide non le ascolta, non le consulta. Questi dictator dimidiati non fanno che aumentare la sofferenza, che diventa disperazione… per far finire la crudeltà occorrono scelte che appaiono impossibili e che sono per questo le sole praticabili e giuste: si riformino le banche“.
Restiamo umani.