La pubblicità, pari pari, è esattamente la stessa realizzata da Tom Ford. A parte un bollino sopra il seno della ragazza: “Perché siamo nelle Marche, zona cattolica, c’è il Vaticano, e poi anch’io sono cristiano praticante”.

Luca Paolorossi, imprenditore della moda -la sua azienda in provincia di Ancona confeziona abiti da uomo su misura, showroom da Dubai a Mosca a Montecarlo e fatturati in crescita- è finito nell’occhio del ciclone per l’immagine di quella sposina nuda che stira i pantaloni del tight al suo futuro marito. Luca Paolorossi dice di averla utilizzata consapevolmente: “Sapevo che sarebbe stata una bomba. E’ stata una strategia pubblicitaria, e ha funzionato. Non mi pento affatto di averlo fatto: amo il corpo della donna, e la rispetto. Vivo tra le donne, assumo quasi solo donne. Mi pento solo degli insulti…”.

“Troie… cornute”, “Offro escort ai mariti delle mamme di Ancona” e altre piacevolezze del genere, seguite da commenti di odio, tipo “massacrale”. Oltre all’auspicio che possa tornare “il Duce” contro quel gruppo “mamme di Ancona” che aveva protestato per la pubblicità sessista. Protesta immediatamente raccolta e amplificata da Telefono Rosa e dalla Rete delle Consigliere di Parità delle Marche, che si sono appellate all’Istituto di Autodisciplina Pubblicitaria.

Paolorossi ribadisce accoratamente il suo rammarico per gli insulti (“ho un carattere irruento e irascibile, non ho saputo reagire con intelligenza, chiedo scusa e me ne pento“) e dice che a causa di questo la sua compagna non gli parla più. Ma rivendica la sua strategia di marketing, e promette azioni legali contro le donne (che gli hanno augurato un pronto fallimento) e contro Facebook che gli ha bloccato la pagina.

A suo modo, omaggia le antagoniste: “Mi piace vedere gli artigli delle donne: se il Paese fosse in mano a loro, saremmo come la Germania”, ma non arretra di un millimetro: “Non userei mai un’immagine che allude alla pedofilia. Ma quella pubblicità non è affatto offensiva“.

Stando al codice di Autodisciplina pubblicitaria, invece, che all’ art.10 stabilisce che  «La pubblicità non deve offendere le convinzioni morali, civili e religiose dei cittadini. La pubblicità deve rispettare la dignità della persona umana in tutte le sue forme ed espressioni», quella pubblicità appare indubitabilmente sessista.

Lei che stira -imprigionata in uno stereotipo tra i più classici-, oltretutto nuda, truccata, ingioiellata e con i tacchi, quindi sessualmente a disposizione perfino con  il ferro in mano: se a lui venisse un’improvvisa voglia basterebbe staccare un attimo la spina. Come se non bastasse, la poveretta guarda adorante e e implorante il suo uomo  (“… ma come? nemmeno ti accorgi di me?”), mentre lui virilmente la ignora, preferendole il giornale. Il solito imbecille che non deve chiedere mai.

Una tristezza che più atroce non si può: esistono ancora uomini che vivrebbero volentieri un film del genere?

La gnocca è pur sempre la gnocca. E continua a far vendere. La bellezza del corpo femminile: desideratissima “merce” simbolica. E per la pubblicità, dopo tanti anni di indisturbato Bengodi, rassegnarsi a rinunciare a tette e culi è un bel problema, specie in un momento così forzatamente anticonsumistico. E se perfino le homepage dei giornali online qualche quarto di manza cercano sempre di piazzarlo, così come, per moltissimi anni, le cover dei newsmagazine (“chi è la gnocca della settimana?”: io le riunioni di redazione me le ricordo) perché mai un imprenditore di provincia, emulo del grande Tom Ford, dovrebbe fare eccezione?

Il tutto è orribilmente deprimente.

L’originale, da una campagna pubblicitaria di Tom Ford