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alessandra bocchetti

Donne e Uomini, Femminismo, questione maschile Febbraio 4, 2016

Sugli spettri di Colonia

Oggi posto alla vostra attenzione le riflessioni di 4 amiche,

Alessandra Bocchetti, Ida Dominijanni, Bianca Pomeranzi e Bia Sarasini,

sul Capodanno di Colonia e sul dibattito che ne è seguito. Il testo è pubblicato da Internazionale.

“Una mano nera si allunga sotto le gambe inguainate in un collant bianco di Angela Merkel fino a toccarle il sesso; la parte superiore del suo corpo è ancora coperta da una delle sue ben note giacche colorate, ma ormai, questo vuole dire l’immagine, la regina è nuda, messa in scacco dall’intrusione molesta dell’uomo nero. È il disegno pubblicato dal quotidiano tedesco Süddeutsche Zeitung a commento e sigla dei fatti di Colonia. Al sessismo degli “uomini neri” che la notte di Capodanno hanno molestato le “donne bianche”, gli “uomini bianchi” rispondono con lo stesso sessismo contro la loro cancelliera.

Risposta oscena ma, nel suo estremismo, veritiera. Che avesse ragione Michel Houellebecq, nel suo pur assai misogino Sottomissione? Gratta l’odio dei maschi europei verso gli invasori islamici, e ci troverai l’invidia. L’invidia per la sottomissione delle donne di cui gli invasori, al contrario degli invasi, possono ancora godere. Un’invidia esattamente speculare a quella degli invasori per la libertà sessuale femminile di cui possono disporre gli invasi, facilmente intuibile sotto quel “desiderio d’occidente” che ha spinto gli aggressori della notte di Colonia a mimare a modo loro, violentemente, l’allegro e alcolizzato godimento che impazza in quella come in tante altre città europee a capodanno.

Dall’11 settembre in poi, dovremmo averlo capito una volta per tutte dalla scenografia hollywoodiana di quei due aerei che infilzarono le torri gemelle e stuprarono Manhattan (anche allora, guarda caso, si ricorse alla metafora dello stupro), gli atti di violenza e di terrore che in occidente vengono interpretati come se provenissero dall’altro mondo sono intrisi di tracce, tecniche, usi e costumi che provengono dal nostro. Altro che il ritorno delle tribù che qualcuno ha voluto vedere in azione a Colonia: la “superiorità” dell’occidente è dura a morire, e se non fa più ordine nel mondo reale detta ancora legge nell’immaginario globale. Gli “altri” vi si specchiano, anche quando le fanno violenza.

Fatti

Nel gioco degli specchi i fantasmi, si sa, sono di casa. E forse è per questo che sulla piazza di Colonia hanno preso forma e consistenza molto più rapidamente dei fatti reali. Sui quali c’è ancora, un mese dopo, parecchia nebbia. Di che cos’è accaduto quella notte sappiamo l’essenziale, ma parecchi particolari non secondari non li conosciamo e probabilmente non li conosceremo mai.

Un branco di giovani uomini, forse cinquecento forse mille, “di aspetto arabo e nordafricano”, ubriachi e assembrati dentro la stazione, si è riversato a gruppi nella piazza del Duomo circondando, derubando, palpeggiando e molestando pesantemente un centinaio di donne bianche perlopiù tedesche, da sole o in coppia con un’amica o con un uomo o in gruppo, il tutto nella completa passività della polizia che è stata a guardare senza rendersi conto di quello che stava accadendo, e comunque incapace di impedirlo.

Le ricostruzioni, basate sulle testimonianze femminili e sui rapporti della polizia medesima, descrivono dettagliatamente le molestie e le ruberie subite dalle donne; alcune vittime raccontano di aver temuto di rimetterci la pelle. Restano però aperti molti buchi. Chi erano, da dove provenivano, come erano arrivati lì quegli uomini, e perché li si era lasciati riunire nella stazione? Se erano tutti “di aspetto arabo e nordafricano”, come mai tra i 31 fermati per aggressione e rapina figurano anche uno statunitense e tre tedeschi? Erano anche loro nordafricani trapiantati negli Stati Uniti e in Germania, o la loro presenza segnala che bisogna andarci piano con le identificazioni fatte sulla base del colore della pelle?

Tra quei 31 fermati, 19 sono richiedenti asilo, e di questi uno solo è sospettato di molestie; secondo una testimonianza raccolta dal New York Times, inoltre, quella notte una turista statunitense è stata salvata da un cordone di siriani richiedenti asilo; qualche giorno dopo alcune centinaia di rifugiati siriani hanno manifestato contro la violenza, il razzismo e il sessismo. Questi numeri giustificano la messa in stato d’accusa della politica sui rifugiati di Merkel?

Ancora. La polizia, pur in stato di allerta contro il rischio di attentati, si è rivelata del tutto impotente a contenere e disperdere il branco di aggressori, e ha taciuto l’accaduto per quattro giorni, come pure la tv pubblica tedesca. Questa impotenza e questo silenzio si devono a una pruderie “politicamente corretta” a favore dei migranti, come s’è urlato in Germania e in Italia? O piuttosto alla sottovalutazione della violenza sessuale in un paese dove una donna su tre dice di averla subita da uomini che per il 70 per cento non sono arabi ma tedeschi, e in cui la notte di capodanno, come durante l’Oktoberfest, si chiude un occhio di fronte a qualche palpatina?

Infine ma non ultimo: violenze analoghe si sono verificate in contemporanea, quella stessa notte, in altre città tedesche e in Svezia, in Finlandia e in Austria, e questo fa legittimamente sospettare che si sia trattato di una provocazione concertata – un sospetto che a un certo punto è diventato una certezza, sparata sui giornali in prima pagina in Germania e in Italia, per poi essere smentita il giorno dopo. Possibile che i potenti mezzi dell’intelligence tedesca ed europea non sappiano rispondere sì o no a questo sospetto, pure cruciale per valutare l’entità dell’accaduto? Di nuovo: minimizzano per fare un piacere alla politica d’integrazione di Merkel, come sostiene l’opinione di destra? O perché considerano l’accaduto bagatelles pour dames, com’è lecito supporre?

Fantasmi

Non avremo mai risposta a queste domande, per la ragione molto semplice che la notte di Colonia ha ottenuto l’effetto che doveva ottenere a prescindere dallo svolgimento dettagliato dei fatti. E l’effetto consiste in una rapida e potente mobilitazione dell’immaginario europeo, nonché di quello islamico, in materia di sesso e razza: due fattori che quando si intrecciano, e oggi sulla scena globale si presentano sempre intrecciati, sono capaci di produrre miscele esplosive.

Sul versante islamico, ci auguriamo che non faccia testo la convinzione dell’imam di Colonia che le donne, quella notte, le molestie se le sono cercate, coperte com’erano più di profumo che di abiti: ma certo le sue dichiarazioni “estreme” la dicono lunga sul regime del dicibile che autorizza quella che dovrebbe essere una guida spirituale a istituzionalizzare la segregazione femminile (e del resto, come scandalizzarci? Quante volte il “se l’è cercata” giustifica tuttora, da noi, la violenza sessuale?).

Sul lato occidentale, l’antico fantasma coloniale della mano nera che violenta la donna bianca, ben rappresentato dal disegno del Süddeutsche Zeitung, è tornato a materializzarsi, aggiornato, in un’Europa ossessionata da frontiere vacillanti, migrazioni incontenibili, calo della natalità, pericolo terrorista, declino economico, impotenza neoliberale, fallimento politico.

L’aggiornamento del fantasma coloniale significa, in questo quadro, il suo automatico reclutamento nel presunto “scontro di civiltà” in corso. L’uomo nero diventa l’islamico che inferiorizza le donne, proprie e altrui, e attraverso l’attacco alle donne bianche attacca l’intera civiltà occidentale, che invece le donne le ama, le emancipa, le libera, le tutela con i diritti, le presidia con i “suoi” uomini, pronti a scendere in campo a difesa delle “loro” donne.

Ne consegue l’arruolamento delle donne nella difesa della civiltà occidentale suddetta, con relativa messa all’indice delle disertrici: quelle che ad arruolarsi non ci stanno, quelle che sulla civiltà occidentale e sul suo amore per le donne nutrono qualche dubbio, quelle che la violenza contro le donne la vedono anche in occidente e non solo in Medio Oriente, quelle che sulla difesa dei “loro” uomini avanzano qualche sospetto, quelle che nei confronti delle donne musulmane non ergono il muro dei diritti conquistati o la montagna dei vestiti comprati agli ultimi saldi, ma lanciano il ponte di una tessitura comune della libertà femminile.

Noi femministe, in sostanza, iscritte d’ufficio al fronte nemico dell’ipocrisia “politicamente corretta” verso il fanatismo islamico. Salvo ritrovarsi poi, i nostri accusatori, con le statue del Campidoglio coperte in omaggio al presidente iraniano Rohani per decisione di stato o di governo.

Streghe

“Dove sono le femministe?”. Quando ancora le notizie da Colonia arrivavano goccia a goccia, è partita la caccia alle streghe. Trovato il colpevole numero uno, l’uomo nero, la grancassa mediatica, maschile e femminile, è partita alla ricerca della colpevole numero due, la femminista bianca. Rea di tacere, di nascondersi, di non condannare, di colludere con i migranti e con la sinistra che difende (difende?) i migranti, di rompere le scatole ai “suoi” uomini su qualunque quisquilia come fosse una barbarie e di chiudere gli occhi sulle nefandezze dei barbari “veri”.

Le femministe, nel frattempo, a Colonia erano già per strada, a manifestare contro il sessismo e contro il razzismo insieme. E ovunque, in Europa e fuori dell’Europa, erano all’opera per fare il contrario dei talk show e della stampa generalista: capire una situazione nuova e complicata e interpretarla non istericamente, due cose che l’isteria massmediatica non contempla.

E parlavano ovunque potessero, cioè fuori del circuito ufficiale dell’informazione che non le interpella in modo da poterle accusare di stare in silenzio, di essersi dileguate, di non esistere, di avere perso. Parlavano e dicevano quello che ovunque, a est a ovest, a nord e a sud, vanno dicendo dall’11 settembre in poi: che non si lasciano arruolare in nessuno scontro di civiltà per la buona ragione che le civiltà in questione sono entrambe marcate dal patriarcato, entrambe fratturate al loro interno dalla contraddizione fra i sessi ed entrambe segnate, positivamente, dal conflitto tra i sessi innescato dalle donne.

Ragion per cui la trave nell’occhio dell’altro non ci esime dal guardare la pagliuzza nel nostro. E l’orgoglio per le nostre conquiste di donne occidentali non ci esime dal riconoscere le battaglie di libertà delle donne non occidentali.

Monopòli

Non c’è il monopolio islamico della violenza e dell’inferiorizzazione femminile. E non c’è nemmeno il monopolio occidentale e democratico della libertà femminile.

Le molestie della notte di Colonia evocano a tutte noi situazioni molto familiari. Gli sguardi eccitati e fra loro complici degli uomini che tuttora si ritrovano da soli nei bar dei nostri paesi. I branchi di giovani maschi che molestano le studentesse, e talvolta le stuprano, nelle nostre scuole. Il senso di insicurezza e vulnerabilità che ci accompagna specialmente la notte per strada, come una seconda pelle. I racconti di stupri, violenze, femminicidi che riempiono le pagine di cronaca dei nostri giornali. I fraintendimenti maschili sulla disponibilità sessuale femminile che riempiono la posta del cuore dei nostri settimanali.

Nel corso della modernità, la libertà non è stata regalata alle donne dalla civiltà occidentale: sono le donne ad averla conquistata con le loro lotte anche contro la civiltà occidentale

Potremmo continuare ma non serve: la violenza di uomini contro le donne è, purtroppo, uno dei pochi esempi di comportamento universale che il mondo globale ancora conosce. E non diminuisce ma tende addirittura ad aumentare nei paesi dove l’emancipazione femminile è più consolidata. La hybris maschile non si ferma davanti ai diritti costituzionalmente garantiti, alla parità di genere, alla cittadinanza, all’attività lavorativa e al protagonismo politico delle donne: al contrario, sembra che se ne alimenti, forse perché ne ha paura.

Questo significa che non c’è nessuna parentela automatica, nessun rapporto di causa-effetto tra la civiltà occidentale e la libertà femminile. La civiltà occidentale e gli stati moderni nascono, ci tocca ricordarlo con Freud e Hobbes, da un patto tra uomini violenti, che si emancipano dall’autorità paterna e se ne spartiscono l’eredità escludendo le donne dalla vita pubblica e sottomettendole in quella privata. Nel corso della modernità, la libertà non è stata regalata alle donne dalla civiltà occidentale: sono le donne ad averla conquistata con le loro lotte anche contro la civiltà occidentale.

Le democrazie contemporanee registrano a fatica questa conquista, traducendola e spesso tradendola nel linguaggio della parità e dei diritti. Ma tra la libertà femminile e gli ordinamenti occidentali resta aperta una tensione: la libertà femminile resta affidata in primo luogo alle donne stesse, alle loro lotte e alla loro autonomia. Men che meno è possibile identificare la libertà femminile con la libertà di mercato o con un non meglio precisato “stile di vita occidentale”, come l’ideologia neoliberale martellante ci invita a fare dalle colonne dei principali giornali italiani.

Vestirsi o andare al cinema e in discoteca a proprio piacimento sono certo cose piacevoli e irrinunciabili, ma possono sottintendere condizioni di dipendenza dal mercato, dal denaro, da canoni imposti, dallo sguardo altrui che hanno poco a fare con la libertà esistenziale e politica che abbiamo guadagnato con il femminismo. L’occidente non è l’Eden della libertà femminile: ed è solo assumendo questa posizione critica nei confronti della “nostra” civiltà che possiamo sporgerci su altri mondi, o sull’impatto di altri mondi con il nostro.

Differenze

Quando diciamo o scriviamo queste cose, alcune amiche ci rimproverano di usare il patriarcato come categoria universale indifferenziata, finendo col fare di ogni erba un fascio senza vedere che il patriarcato si intreccia con differenti sistemi di dominio, si cristallizza in differenti gradi di oppressione femminile e di sopraffazione maschile, domanda differenti strategie di lotta. Non è così. Siamo ben consapevoli, tristemente consapevoli, che oggi la radicalizzazione politico-religiosa peggiora la vita delle donne nei paesi islamici, legittimando su base ideologica il dominio maschile.

Sul cartello in primo piano c’è scritto “Tutte le donne meritano rispetto”, Colonia, il 17 gennaio 2016. (Karsten Schoene, Laif/Contrasto)

Siamo consapevoli che la violenza sulle donne è diventato per il gruppo Stato islamico e per Boko haram uno spietato carosello pubblicitario, che sulle donne di piazza Tahir si è scaricata la frustrazione maschile di una rivoluzione perdente, che in paesi come l’Afghanistan taliban le donne sono di nuovo costrette a una segregazione che sembrava essere stata superata. E sappiamo di essere inadeguate di fronte a questi come ad altri effetti delle guerre e del disordine mondiale di oggi, perché le guerre impediscono in radice quella pratica di relazione con l’altra che nella politica delle donne è irrinunciabile e che l’indignazione e gli attestati di solidarietà, per quanto urlati, non possono sostituire.

Né ci volevano i fatti di Colonia per realizzare – ohibò – che una politica dell’accoglienza che non tenga conto della differenza sessuale è una cattiva politica

Sappiamo altrettanto bene che le migrazioni non risolvono ma moltiplicano il problema dei rapporti fra i sessi. Ci si attribuisce oggi l’onere della prova che per noi la difesa della libertà femminile viene prima del buonismo sulle politiche dell’accoglienza. Rimandiamo questa richiesta ai suoi mittenti. Non siamo state certo noi a parlare, per anni, di migranti e di rifugiati in modo neutro, come se la condizione di migranti o di rifugiati cancellasse la differenza sessuale. Non la cancella, e non ci volevano i fatti di Colonia per accorgersi che l’accoglienza e la cosiddetta integrazione non sono due pranzi di gala. Non ci volevano i fatti di Colonia per accorgersi che norme e consuetudini delle comunità straniere fanno quasi sempre a pugni con le nostre, che le difficoltà di integrazione spesso le irrigidiscono ulteriormente inasprendo la segregazione femminile al loro interno, che le donne sono sempre, in pace come in guerra, posta in gioco di uno scambio sociale che gli attriti culturali rendono arduo e talvolta impraticabile.

Né ci volevano i fatti di Colonia per realizzare – ohibò – che una politica dell’accoglienza che non tenga conto della differenza sessuale è una cattiva politica. Laddove si creano ghetti di soli maschi, che siano islamici o no, il pericolo del branco è sempre in agguato. Laddove si organizzano e si tollerano tratte femminili, la prostituzione e il suo sfruttamento sono garantiti. E tuttavia, ci sarà pure da riflettere di fronte al fatto che è dal versante maschile dei migranti che emerge il problema di una minaccia violenta alla convivenza sociale.

Sono più uomini che donne a reagire aggressivamente all’urto dell’impatto con i paesi d’accoglienza. E sono più donne che uomini – si pensi alle migliaia di badanti che vivono e lavorano in Italia, o alle donne che lavorano nei centri d’accoglienza o nella mediazione culturale o nell’insegnamento delle lingue ai migranti – a occuparsi della cura della vita e delle relazioni fra mondi diversi, continuando l’opera femminile della civiltà che la violenza maschile nasconde e disfa.

Questa almeno è una buona notizia; e non è l’unica, se solo guardiamo a quello che sta accadendo considerando le donne come soggetti attivi, e non come oggetti passivi, del cambiamento in corso.

Cori noir

È bastata l’aggressione di una notte a Colonia e nelle altre città coinvolte per trascinarci in un baleno tutte, occidentali e nordafricane, nella casella delle vittime designate, pericolanti e perdenti del supposto “scontro di civiltà” in atto. Ma la vittimizzazione delle donne è una delle più frequenti strategie del loro addomesticamento: serve a nascondere e a deprimere la soggettività femminile e le pratiche sociali, politiche, artistiche in cui si esprime.

Ovunque oggi, in un quadro planetario attraversato da faglie, guerre e mutamenti inediti, le donne lottano per la propria libertà, ovunque aprono conflitti con l’altro sesso, ovunque escono dagli schemi imposti, ovunque tradiscono le ingiunzioni normative sulla loro esistenza, ovunque intrecciano relazioni con donne di cultura e provenienza diverse. Questo “ovunque” vale da mezzo secolo in qua, lo ricordiamo a quanti sui mezzi d’informazione ci danno per morte e per sconfitte ogni volta che possono, nelle democrazie occidentali. Ma vale oggi, in primo luogo, per il mondo musulmano.

Lo sappiamo da analiste competenti, che inascoltate ci spiegano le differenze, le articolazioni, le combinazioni tra legge religiosa e leggi statuali interne a quel mondo, e le connesse differenze nella condizione, nella soggettività e nella rivolta femminili. Lo sappiamo dalle migranti che incontriamo nella nostra quotidianità, dalle storie che ascoltiamo nei centri antiviolenza a cui le più sfortunate si rivolgono per trarne la forza di ribellarsi a un padre o a un marito o un fratello, dalle testimoni sopravvissute alle guerre, dalle protagoniste delle rivolte.

Lo sappiamo dai racconti delle scrittrici, dalle opere delle artiste, dai film delle registe, dal pensiero delle filosofe, dalle letture del Corano delle teologhe. E sappiamo anche che la strada della libertà delle donne musulmane non passa sempre né necessariamente per la loro occidentalizzazione, vale a dire per un’emancipazione laica, giuridicamente assistita dalla sintassi dei diritti e dalla retorica della parità, e tanto ribelle all’ingiunzione a velare il corpo femminile quanto obbediente all’opposta ingiunzione a scoprirlo.

Ci dissociamo perciò nettamente dal coro noir che ha accompagnato sui mezzi d’informazione italiani ed europei i fatti di Colonia. La voce delle donne, quando la si ascolta e non la si mette a tacere, racconta una realtà ben più articolata di quella di una regressione generalizzata al patriarcato tribale degli uomini ambrati e barbuti che dal Medio Oriente allunga la sua ombra minacciosa sulle donne europee. La diagnosi andrebbe piuttosto ribaltata.

C’è una generalizzata crisi del patriarcato che ovunque, a ovest e a est, a nord e a sud del mondo perde il credito femminile. Con buona pace delle fantasie alla Houellebecq, la sottomissione femminile non è più garantita né sotto le insegne dell’islam né sotto quelle cristiane o di altre religioni. E la libertà femminile non passa solo per le magnifiche sorti e progressive della democrazia laica.

Nel mondo globale la legge del padre, che nella modernità ha assicurato il suo supporto simbolico agli ordinamenti politici e statuali, non fa più ordine. In questo disordine si aprono molti varchi per atti di violenza maschile nostalgici e reazionari, ma se ne aprono altrettanti per costruire pratiche di libertà femminile e reti di relazione tra donne, che tradiscono l’appartenenza a questa o quella civiltà e ai rispettivi feticci e inventano forme inedite di politica basate sullo scambio, il conflitto e la mediazione tra esperienze, storie, radici, orizzonti di senso differenti.

Bocche velate

L’ascolto dell’altra e dell’altro, della sua esperienza e della sua storia, delle sue esigenze e dei suoi desideri, dei suoi traumi e delle sue risorse, è una condizione necessaria per ritessere la trama della civiltà in una direzione opposta allo scontro tra le civiltà. Non ci aiuta e anzi ci è di ostacolo, in questo, il frastuono della macchina mediatica italiana, tutta programmata non per ascoltare ma per urlare.

“A Colonia è esaurito lo spray urticante insieme al senso di sicurezza”, Colonia, il 9 gennaio 2016. (Karsten Schoene, Laif/Contrasto)

Abbiamo già detto della caccia alla strega femminista che è scattata subito dopo i fatti di Colonia, una strega accusata, senza essere interpellata, di silenzio colpevole, di connivenza con l’ipocrisia favorevole ai migranti politicamente corretta, di usare due pesi e due misure contro gli uomini di casa sua e contro gli stranieri. Ma non è un problema che nasce a Colonia: questo schema si ripete, insopportabilmente uguale, a ridosso di qualunque evento che chiami in causa le relazioni tra i sessi. La molla che scatta è sempre la stessa, il tentativo di liquidare il femminismo e le femministe decretando che hanno perso e distorcendone o sminuendone le posizioni.

La futilità programmatica che non da oggi caratterizza buona parte del giornalismo italiano si fa, quando c’è di mezzo il femminismo, più approssimativa e grossolana. Come se parlando di donne tutto fosse lecito, come se la cronaca non avesse precedenti, come se la parola femminile non contasse niente, come se le posizioni politiche e culturali femministe non avessero il diritto alla distinzione, all’analisi, alla discussione che si riserva alla chiacchiera maschile: e soprattutto come se non esistessero nella loro autonomia, ma solo come appendici subalterne della sinistra e della destra, o comunque di schieramenti e conflitti disegnati altrove.

Un immaginario misogino, maschile e femminile, prende così il posto dell’analisi della realtà. E la delegittimazione del femminismo diventa una posta in gioco, nient’affatto secondaria, di qualunque “guerra culturale”: accompagnata, va da sé, dalla promessa che ci penseranno i “nostri” uomini, d’ora in poi, a difenderci da quello che non siamo in grado di contrastare noi.

Questa prassi corrente dei mezzi d’informazione mainstream non è meno violenta delle mani maschili che si sono infilate sotto i vestiti delle donne la notte di Colonia. E dice, torna a dire, che ogni qual volta è sotto attacco il corpo femminile, è la parola femminile il vero obiettivo, la vera minaccia, il target da abbattere: qui, nell’occidente della libertà di espressione, non lì, nel Medio Oriente delle bocche velate. Abbiamo scritto questo testo per mostrare che quella parola è viva e non si lascia silenziare.

Corpo-anima, Donne e Uomini, Politica, questione maschile Febbraio 12, 2015

Ancora sulla prostituzione “legale”: parla Alessandra Bocchetti

Alessandra Bocchetti

Pubblico (e condivido senza riserve) questo intervento di Alessandra Bocchetti

IL BISOGNO DI SESSO E’ UNA REALTA’ CHE RIGUARDA UOMINI E DONNE

L’idea di dedicare alcune strade della capitale alla compravendita del sesso mi ha sgradevolmente colpito, così come l’idea più generale di regolamentare la prostituzione con tanto di elenchi depositati alla Camera di Commercio e ricevute fiscali.
Abbiamo una legge che proibisce il favoreggiamento della prostituzione, l’adescamento, la compravendita dei corpi, questo dovrebbe bastare.

A chi ci dice che è un problema di ordine pubblico rispondo semplicemente che la legge va rispettata.

A chi ci dice che è un bisogno naturale forte che si deve soddisfare, rispondo che siamo contrarie a considerare la sessualità maschile al di sopra delle leggi. Il bisogno di sesso è una realtà che riguarda uomini e donne, senza che questo debba produrre scandalo, sottomissione, schiavitù e perdita di dignità. I corpi non si comprano e non si vendono, chi lo fa lo fa per un gioco perverso, dato che ormai c’è libertà sessuale di tutti, o per avidità di denaro e mi rincresce pensare che questo gioco continui a cercare autorizzazioni pubbliche. Disgraziati e disgraziate invece sono coloro che lo fanno per poter sopravvivere, per mangiare e dar da mangiare o per paura. Di questo e non di altro lo Stato si dovrebbe preoccupare.

A chi ci dice che questo “ordine” nella prostituzione può contrastare la tratta degli esseri umani e la schiavitù, rispondo che, tra i servizi segreti, polizia internazionale e polizia di casa nostra, tratta e schiavitù potrebbero essere eliminate in poco tempo se solo lo si volesse veramente. Non è così.
E’ questo il vero problema da affrontare: la grande autorizzazione e connivenza che, implicite e esplicite, fanno vivere la prostituzione.

Donne e Uomini, questione maschile Febbraio 9, 2015

Prostituzione: il diritto maschile alla “scarica”. E tutto il resto. Come stiamo tornando indietro, incapaci di reagire

Meno male che c’è quel bravo ragazzo di Carlo Verdone, che intervenendo nel dibattito sulla prostituzione all’Eur e zona a luci rosse, la butta lì, quasi scusandosi: “è una mossa viziata da un errore etico di base, ammettere che il corpo femminile possa essere messo in vendita. Sarò all’antica e sarò ingenuo, ma non posso accettare una cosa simile“.

Intanto ci sono donne in Parlamento, come la senatrice Pd Maria Spilabotte, che progettano la legalizzazione della prostituzione: il mestiere “più antico del mondo” diventerebbe a tutti gli effetti “una professione come un’altra”, benché di “professioniste” autogestite si possa parlare a dir tanto nel 20 per cento dei casi, visto che per il restante 80 per cento si tratta di schiave sessuali. Sempre più giovani: Lolita, mica la Gradisca. Una pseudo-pedofilia. Come le ragazzine vendute con tanto di pezzo di marciapiede dai rumeni a Milano, o le “massaggiatrici” dei bordelli cinesi che infestano le nostre città.  Un bel quartierino ordinato a luci rosse, con tanto di controlli sanitari e dichiarazione dei redditi, e tutte le altre, 8 su 10, spesso prive di permesso di soggiorno, che continueranno a battere nascoste nel resto della città, reiette tra le reiette. Come se bastasse una decisione amministrativa a fare ordine in quel grande disordine simbolico che è lo sfruttamento sessuale.

Certo: spiacevole entrare nell’androne di casa tua e scoprire cliente e prostituta che si accoppiano, o affacciarti alla finestra e vedere auto in sosta che sobbalzano: ma che cosa ci preoccupa di più? il decoro dello stabile o la riduzione a povere cose di decine di migliaia di donne? Che cosa pensiamo di ottenere rivendicando di non vedere?

Il diritto maschile alla “scarica” è il grande indiscusso: la sessualità degli uomini è questo, non ci si può fare niente. C’è stato un tempo in cui si provava a parlarne, ma a quanto pare quel tempo è finito. Le cronache ci parlano degli aguzzini che sfruttano le ragazzine, ma mai una parola sugli uomini che di quella carne in schiavitù godono (rimozione assoluta del godimento femminile, la donna definitivamente Altra) e senza i quali il business non esisterebbe. Che gli uomini comprino carne di donna in vendita è un dato di natura immodificabile. Forse, anzi, si potrebbe mutuare dall’Islam l’istituto del matrimonio temporaneo o nikah al mutah (letteralmente: matrimonio di godimento), che consente ad un uomo di contrarre matrimonio per un periodo limitato nel tempo, qualche ora, qualche giorno: la prostituzione secondo il Profeta e la Sharia, nel caso 4 mogli non bastassero. Senz’altro più ordinato e decoroso che i copertoni per strada.

La grande normalizzazione, o backlash, prevede tra le altre cose anche il ritorno all’aborto clandestino, in assenza di qualunque discorso pubblico: se ne riparlerà a marzo al Parlamento Europeo, ma grandi mobilitazioni non se ne vedono, diciamo la verità. Quasi nessuna fa un plissé. Non vogliamo vedere, non vogliamo sapere, il femminismo di Stato va alla grande, 50/50 anche nelle assemblee di condominio, ma ”sottomissione” è una parolina molto up to date, l’illuminismo un vecchio arnese, l’ormai inevitabile civilization change prevede che si abbassi un bel po’ la cresta.

Recensendo il romanzo di Michel Houellebecq Marco del Corona sostiene che forse l’autore “vuole offrirci, dopo tanto scoramento, un barlume di speranza: se c’è un argine alla sottomissione romanzesca prefigurata da Sottomissione, può venire solo dalle donne”.

E lo psicoanalista Fethi Beslama, sottolineando che “l’assioma che soggioga la soggettività maschile è godere delle donne e odiare il loro desiderio”, (Dichiarazione di non sottomissione – Poiesis) e inscrivendo nell’agonia del patriarcato la violenza del fondamentalismo islamico, sostiene che “la catena della schiavitù e della politica disumana non può essere spezzata se le donne rimangono asservite a questa configurazione del femminile, chiuse sotto chiave dalla sovranità dispotica dell’uomo stallone”.

Cito due uomini, non due femministe. Non sarebbe il momento di discuterne?

 

 

 

 

 

 

 

 

 

AMARE GLI ALTRI, Donne e Uomini, economics, Politica Gennaio 26, 2013

Alessandra Bocchetti: Per vanto, per tigna, per orgoglio

 

Con grande piacere ospito questo intervento di Alessandra Bocchetti, e la ringrazio.

 

“E’ ricominciato il teatro della politica. Chi vince, chi perde, chi ha la battuta più pronta, chi ha la lingua più sciolta, chi è più furbo, più abile, più spiritoso. Uno spasso oppure la disperazione.

Pochi giorni fa in una delle mie tardive incursioni al mercato, quando già tutti stanno sul piede di partenza e le cassette ormai tutte impilate, ho visto un dignitoso signore che tra gli scarti a terra di frutta e verdura, raccoglieva quello che ancora era possibile raccogliere. Raccoglieva con eleganza come fosse in un orto o in un giardino e non sul pavimento sporco e fradicio del mercato all’ora di chiusura. Per me non è stata solo pena, ma un brusco viaggio nel tempo a  quando i miei figli erano piccoli e, alla vista di qualcuno che chiedeva l’elemosina, mi chiedevano, chi era, perché… Spiegare la miseria è stata per me, giovane madre, uno dei compiti più difficili. La miseria è difficile da spiegare perché fa tanta vergogna. Fa vergognare perché è colpa di tutti.

Viviamo in un tempo in cui è difficile raccontare la miseria. Tutte le mattine invece ci aspettano gli annunci: il paese è più povero, siamo tutti più poveri. Ci informano che i consumi calano, non si vendono più automobili, si viaggia di meno, i saldi sono un flop! Non possiamo più consumare allegramente, ce lo dicono i numeri, le statistiche, i bilanci. L’annuncio più spaventoso è quando ti comunicano che gli investitori fuggono. Così la nostra immaginazione si popola di figure misteriose: gli investitori che fuggono, lo spread che si alza e si abbassa, il debito pro capite che ogni bambino che nasce, creatura innocente, trova già pronto al suo arrivo. Poi ci sono i moniti della Bce, se non della Banca Mondiale o di Draghi in persona, il cui solo nome porta con se  visioni poco serene. In verità poche persone sanno quello che sta succedendo, questi sono gli esperti e i tecnici, lontani mille miglia da tutti noi. Tra di noi c’è chi un po’ si districa, c’è chi un po’ fa finta di capirci, la maggioranza si arrende e si affida. Questo affidamento è la cosa più pericolosa, perché così non si è più veramente cittadini anche se ti sembra.

Chi ci può salvare da un destino così misero è chi è capace ancora di raccontare la miseria fuori dai numeri. Chi è capace di ricordarci che il destinatario della miseria è sempre un corpo umano e chi considera tra i “beni comuni” anche tutti noi, giovani, vecchi, donne e bambini, tutti insieme, tutti in carne ed ossa.

Al mattino alla radio ascolto spesso “Prima pagina” un programma dove un giornalista commenta le principali notizie dei quotidiani e poi dialoga con coloro che chiamano per telefono per parlare delle loro personali esperienze. Lì si possono ascoltare i racconti, che sono spesso crudi e terribili, ma mai misteriosi. Pochi giorni fa una donna raccontava che per via dell’eliminazione del servizio di un pulmino garantito dal  comune del suo paese, non avrebbe potuto più permettersi di fare la dialisi tre volte a settimana e che quindi aspettava di morire. Un’altra donna raccontava che suo figlio non aveva più l’insegnante di appoggio, perché il budget della scuola non poteva più garantirlo. Quella donna temeva per suo figlio un destino crudele in un mondo crudele. Il suo amore, raccontava con dignità, non sarebbe bastato a proteggerlo. Un’altra donna confessava con stupore  di come il suo affetto per i due genitori ormai disabili  stesse mutando a poco a poco nel suo cuore in un inaspettato risentimento.  E’ un effetto della stanchezza, diceva quasi vergognandosi, perché non riceveva più alcun aiuto.

Con questi racconti ecco che l’economia si materializza, così i tagli alle scuole, alla sanità si fanno vedere per quello che combinano e scombinano, per quello che hanno a che fare con i destini delle persone.

Le storie sono tante, diverse, ma hanno sempre una cosa in comune: è sempre una voce di donna che racconta. Le donne sono capaci di raccontare e di svelarci cosa i numeri non fanno vedere.

Perché è soprattutto su di loro che si abbatte la crisi, questa come tutte le crisi della storia, come le guerre, le carestie, le epidemie. Sono sempre state le donne a pagare i prezzi più alti. Camus, ritirando il premio Nobel, dichiarò che gli esseri umani sono divisi  tra coloro che fanno la storia e coloro che la subiscono. E che lui si sarebbe sempre schierato con questi ultimi. Tra questi ultimi ci sono le donne. Non ce ne dobbiamo vergognare. E’ proprio per questo che sappiamo raccontare gioie e dolori meglio degli altri. Ancora a noi, per ora, appartiene la modestia del racconto, quello che non si fa con la penna, ma con la voce. Siamo capaci anche noi di farne arte, certo, ma per la politica sono più importanti i racconti  senza pretese.

Questa volta, speriamo, tante donne entreranno in Parlamento. C’è addirittura chi parla di una vera rivoluzione. Anche io ho lavorato tanto perché questo succeda, quindi ne sarò molto contenta. E’ un primo importante passo, ma non è questa la rivoluzione delle donne, sia chiaro. La vera rivoluzione sarà se le donne saranno capaci di parlare con la propria voce, quella della loro storia, quella appunto che sa raccontare. Rivoluzione sarà, se non se ne dimenticheranno, se non se ne vergogneranno, se la sapranno riconoscere tra le tante e la sapranno ascoltare dentro e fuori di sé. Insomma, voglio dire che la vera rivoluzione sarà solo se riusciranno a restare donne.

Sembra un paradosso, vero? Come si fa a non parlare con la propria voce, a parlare con la voce di un altro? Eppure capita alle donne soprattutto in politica, perché la politica è sempre stato il mondo degli uomini, il mondo del loro potere, delle loro decisioni. E non ha importanza se queste decisioni hanno portato a dei grandi disastri, se scelte sbagliate hanno prodotto milioni e milioni di morti. Comunque gli uomini si sentono autorizzati alla politica e pensano che quello sia il loro territorio, la storia di tanti errori non riesce a delegittimare questa loro certezza. Di fronte a tanta sicurezza, le poche donne che fino ad oggi sono entrate a fare parte di questo mondo, hanno finito per parlare con un‘altra voce. C’è da dire che viene quasi naturale, come entrando in un coro, spontaneamente si segue la voce dominante. Ci sono state delle eccezioni luminose verso le quali ogni donna è debitrice, ma queste eccezioni non hanno fatto ancora la rivoluzione. Così chi ci governa è ancora lontano dalla vita quotidiana, sa poco di cosa succede nelle case, ha magari il sapere dei numeri, o la sua presunzione, ha, o crede di avere, l’arte delle alleanze, ma non ha la voce del racconto, né la capacità di saperla ascoltare. Le donne al seguito.

Con questa storia dei numeri che, avrete capito, io uso come artificio retorico, non vorrei deludere la mia amica Linda Laura Sabbadini, perché lei è una di quelle persone che ai numeri mette l’anima, consegnandoci un paese più leggibile seguendo parametri di pura umanità.

Personalmente soffro quando sento rivendicare la formula del 50 e 50. Detta così, sembra un’arroganza, una spartizione ladronesca, tanto a me tanto a te, un gesto di giustizia rudimentale, la giustizia dell’invidia, bassa, la definirebbe Simone Weil. Si tratta, in realtà, di un’idea tutta nuova, inedita alla storia, del governare insieme di uomini e di donne, non perché gli uomini e le donne sono uguali, ma proprio perché sono differenti, due corpi differenti, due storie differenti, due sguardi differenti. Anche la formula di “democrazia paritaria” con cui si vuole significare questa nuova teoria di governo, non mi soddisfa, perché l’idea della parità è talmente estranea alla realtà umana che questa formula finisce per significare una sorta di idealità troppo astratta. L’”insieme” di cui si parla non sta a garantire un mondo più giusto, ma solo un mondo più equilibrato, che funzioni meglio per tutti, garantito dal doppio sguardo di due esseri che sono sempre stati vicini, ma non sono stati mai vicini per governare i beni comuni, i beni, cioè, che appartengono a tutti coloro che condividono l’esperienza umana,  finalmente senza servi, né serviti.

I segretari dei partiti che hanno accolto questa idea, sono stati più conformisti che veramente interessati, non hanno capito la portata rivoluzionaria di una teoria come questa. Passare dalla civiltà dell’uno alla civiltà del due, è un cambiamento epocale. Non ho registrato né commozione né sgomento.

E le donne ne saranno all’altezza? Il gioco è tutto in mano loro.

Personalmente credo che a salvarci dalla crudele deriva liberista potrà essere solo il sapere delle donne e il loro modo di stare al mondo, se le donne, però, riescono a coglierne il valore. Ma sapranno rendere i racconti che hanno ascoltato, che hanno fatto, strumenti di una politica più attenta alla vita? Sapranno armonizzare la politica dei racconti con la politica dei numeri? Sapranno non dimenticare di essere donne? Altrimenti non vale la pena, meglio sarebbe fare altro.

Certo per loro il compito non è facile, ma le donne hanno una chance in più, secondo me.

Gli uomini hanno dietro di loro un’età dell’oro che è sfuggita per sempre dalle loro mani, legata a un ordine che non c’è più. Questo ordine voleva le donne sottomesse, a casa con i bambini sorridenti o al giardino,  con pochissima istruzione, che tanta non serviva, donne dall’intelligenza disinnescata, che non potevano amministrare i loro beni, che non potevano deporre in tribunale, sempre a totale  disposizione per desideri, capricci e soprattutto servizi. Rarissimi uomini nella storia hanno sofferto per le condizioni misere delle donne. Questo ordine  ogni onest’uomo lo rimpiange nel segreto della sua anima ancora oggi, anche se non tutti sarebbero  disposti a confessarlo. Per questo sentimento segreto le donne ai loro occhi, nel mondo della politica, ma anche in quello degli affari, anche in quello della scienza e dell’arte resteranno delle intruse chissà per quanto tempo ancora. Per loro siamo ancora disordine. E’ bene non dimenticarlo, dovendo fare “un insieme”

Noi donne invece non abbiamo niente da rimpiangere, nessuna età dell’oro alle nostre spalle, nessun ordine ci fa nostalgia, proprio per questo possiamo guardare avanti ad occhi asciutti con animo saldo e piede leggero. Questa è la nostra forza, basta cercarla dentro di sé. Possiamo vincere un premio Nobel, ma anche  raccontare la vita vera come nessuno, perché nessuno la conosce come la conosciamo noi. E poi apparteniamo a quel popolo eletto che si lava le sue mutande da sé e continueremo a lavarcele, per vanto, per tigna e per orgoglio. E questa non è una metafora.

Un grande augurio a tutte le donne che saranno elette, che possiate fare del vostro meglio”.

 

 

Donne e Uomini, Politica Gennaio 3, 2013

Insomma, amiche: ce l’abbiamo fatta

Per celebrare con la necessaria solennità il momento, uso le parole di Alessandra Bocchetti, una delle mothers of us all, al convegno di Paestum: ” Comincio con un paradosso. Mi sembra che sia chiaro a tutte che, oggi, un governo senza donne sia impresentabile. Nessun Presidente del Consiglio si presenterebbe più con una squadra di soli uomini… Dunque, che cosa ha reso impresentabile un governo senza donne? E’ facile rispondere: è stata la forza delle donne“.

La realtà sta perfino superando l’ottimismo di Alessandra. E ha dimostrato con chiarezza un fatto: quando si permette che siano i cittadini a scegliere riducendo le mediazioni, donne e uomini indicano le donne in percentuale uguale e in qualche caso superiore alla quota di uomini. Perché ne conoscono e riconoscono capacità, competenza, onestà e senso di responsabilità.

Dopo l’exploit delle Parlamentarie grilline, con il 55 per cento di candidate, l’indicazione esce fortissima dalle primarie per i parlamentari del Partito Democratico, anche grazie all'”invito” costituito dalla doppia preferenza di genere, che tuttavia ha semplicemente dato corso a un progetto già maturo. Come nota Roberta Agostini, responsabile delle donne del Pd, se “la doppia preferenza di genere è stato lo strumento fondamentale per rendere realizzabile la voglia di cambiamento e il desiderio di esserci e di partecipare delle donne”, non sarebbe bastata la semplice applicazione di questa azione positiva  a garantire che “quasi dappertutto, dal sud al nord d’Italia, le donne venissero premiate dal voto popolare, conquistando i primi posti nella competizione“. Ben più dello strumento, quello che ha contato è stata la volontà politica generale. 

Un sondaggio che ormai più di un anno fa avevo fatto realizzare per “Io donna” evidenziava già un Paese prontissimo al “doppio sguardo”.

Gli altri schieramenti non potranno sottovalutare il segnale: è in corso una vera e furibonda caccia alla candidata -con curriculum pregevole: perché il bello è che insieme alle donne arriva anche il merito– soprattutto da parte di quelle forze che hanno da far dimenticare non solo la propria misoginia politica, ma un uso congiuntamente sprezzante delle donne e delle istituzioni, calpestate con la medesima determinazione. Andazzo protrattosi per quasi un ventennio, causa di un arretramento morale, politico, culturale e sociale della cui misura ci si rende perfettamente conto ogni volta che si varcano i confini nazionali, e che a noi cittadine italiane ha guadagnato un vergognoso 80° posto nel Global Gender Gap Report.

L’esito di questa tumultuosa femminilizzazione della politica -tutto corre veloce, di questi tempi, come al fondo di un imbuto- potrebbe finalmente essere quella rivoluzione del doppio sguardo che aspettavamo da tanto tempo, premessa indispensabile per la ricostruzione del Paese. Come sottotitolavo il mio ultimo libro “Un gioco da ragazze“, ora vedremo “come le donne rifaranno l’Italia“: avendolo scritto nel 2011, in pieno bunga-bunga, la profezia non era affatto facile. Ma la fiducia ha avuto la meglio.

Questa rivoluzione, in verità, altro non è che il risultato del grande, decennale, tenace, microfisico e a tratti disperato lavoro di molte, moltissime donne di questo Paese, dentro e fuori dai partiti, nei luoghi di lavoro, nelle scuole e nei giornali -per quello che ci è stato consentito-: ho ancora in mente, ormai mille anni fa, i computi disperati dei decimi di percentuale con Valeria Ajovalasit di Arcidonna, e poi la Carta delle Donne del Pci, i timidi passi avanti e quelli indietro, la pratica dell’estraneità, il senso opprimente di una realtà che sembrava non dovesse cambiare mai, fino all’esplosione del 13 febbraio e alla lotta per il 50/50 alle amministrative. Se n’è andato un bel pezzo delle nostre vite, in questa battaglia. Ma come dice Bocchetti, quello che ha reso “impresentabile” un governo senza le donne è stata “la forza delle donne”, la straordinaria capacità di resilienza di cui siamo dotate, in grado ogni volta di riguadagnare terreno dopo essere state scaraventate indietro.

E’ il momento di dirlo: è andata. Ci siamo. Di indugiare almeno un poco in questa soddisfazione. Di voltarsi indietro, come ci capita tante volte nella vita, per dirci con stupore: “Non so come sono riuscita a farlo, ma l’ho fatto”. Di rivolgere un pensiero grato a quelle che hanno aperto la strada. Di caricarci di tutta l’energia che servirà a fare il lavoro vero e grande: cambiare la politica per cambiare il Paese.

La mia fiducia oggi è centuplicata.

Donne e Uomini, Politica Ottobre 19, 2012

La scomparsa delle donne (di Laura e di tutte)

Bisogna che ce lo mettiamo bene in testa, care amiche: se scompare lei, Laura Puppato, prima e unica candidata alla premiership nella storia di questo paese misogino, politicamente scompariamo tutte. Scompaiono le sue sostenitrici ma anche quelle che non la sostengono. Scompaiono le donne di sinistra, di destra, di centro, le agnostiche.

Quando qualche anno fa ho scritto un libro intitolato “La scomparsa delle donne”, non mi riferivo questo. Ma oggi il titolo funziona perfettamente per descrivere quello che sta capitando.

Quando si parla di primarie del centrosinistra si parla solo di Bersani, Renzi e Vendola. Anche le donne del Pd nominano solo Bersani e Renzi, e quelle di Sel aggiungono Vendola. Nei sondaggi si parla del piazzamento di Renzi, Bersani, Vendola, e infine di “altri”: il nome di Puppato non viene nemmeno pronunciato. Idem ieri sera, su La 7, conduzione di Formigli: solo la protesta di Sabina Ciuffini, lì presente, e i tweet indignati di varie telespettatrici. Silenzio dei giornali. Incredibile oscuramento anche da parte del femminismo: tace Se Non Ora Quando -anche se parlano varie illustri snoqer, come Alessandra Bocchetti, Lidia Ravera, Lunetta Savino e altre-. La presidente della Rete pugliese delle Donne per una Rivoluzione Gentile, Rita Saraò, sonda l’umore delle associate: voterete Bersani, Renzi o Vendola!!! Puppato nemmeno la considera. Donne elette in consiglio comunale a Milano in forza del 50/50 e dei ragionamenti sul genere che si scrollano la questione di dosso: “la candidatura di genere non esiste” (Marilisa D’Amico). Peccato che quando si è trattato di farsi eleggere esisteva, eccome. Sembra mancare del tutto la consapevolezza che quello che oggi capita a Puppato sta capitando a tutte -l’oscuramento assoluto, vedi il caso del convegno di Paestum– e continuerà in particolare a capitare a qualunque donna si faccia avanti politicamente.

E’ opportuno distinguere: un fatto è votare Laura Puppato, scelta ovviamente libera; altro fatto è nominarla, ovvero riconoscerla politicamente, non condannarla all’inesistenza politica. Su questo dovremmo tutte convergere e ribellarci, perché la portata simbolica di questa cancellazione è devastante.

Forse se è un uomo a dirlo fa più impressione. Antonio Capone mi scrive su Facebook: “Ha meravigliato anche me la poca o quasi nessuna indignazione delle donne per il caso Puppato, con la scusa dell’ “in-sano realismo”… più realiste del re. Possibile che non venga almeno percepito il valore simbolico della questione… a meno che non si consideri la questione di genere come una cosa superata… E’ risaputo che la parola d’ordine in ogni campo è saper fare squadra…e perché in questo caso non avviene? Non vorrei che il nostro Paese, in ritardo su troppe cose, lo fosse anche su questa questione. Spero di sbagliarmi. L’esclusione delle donne dai posti di potere ha ripercussioni sociali, economiche, e d’immagine nel mondo di non poco conto… il grado di civiltà di un paese viene misurato anche da questo marker…”.

La gaffe del repubblicano Romney contro le donne probabilmente condizionerà in modo definitivo l’esito delle presidenziali americane, e quindi i destini del mondo: perché lì l’opinione pubblica femminile -e il voto delle donne- pesa moltissimo.

Non è forse venuto il momento che capiti anche qui?

 

Donne e Uomini, Politica Maggio 6, 2011

ALESSANDRA BOCCHETTI DICE

Ho partecipato a un incontro a Orvieto insieme ad Alessandra Bocchetti e la brava governatrice della Regione Umbria Catiuscia Marini.

Ecco alcune cose significative dette da Alessandra Bocchetti durante l’incontro:

Non c’è possibilità di affidamento politico tra uomini e donne.nessun uomo può parlare al posto di una donna.

La sottomissione di un soggetto all’altro nn genera mai una buona convivenza.

Quando per la strada ci capita di imbatterci in un gruppo di persone, il fatto che tra loro ci siano delle donne ci rassicura. Quella delle donne è una presenza civilizzatrice. Questo sentimento di timore di fronte al fatto che ci sono solo uomini dovremmo provarlo anche nella vita pubblica.

La capacità di risparmio che, come ci viene detto, ha salvato il paese, siamo noi donne. Ssiamo noi che abbiao salvato le banche.

Il vittimismo è una comoda via d’uscita per le donne. La donna che accetta di essere vittima è colpevole.Il dominio è sempre un patto che si fa in due.

Quando un soggetto nuovo entra nella società è sempre festa.

le politiche di pari opportunità oggi devono mirare al contenimento degli uomini, del loro attaccamento al potere, del loro desiderio di apparire, della loro volontà di dominio.