Aïcha El Hajjami

Il numero di dicembre del periodico Via Dogana (l’ultimo, almeno per ora), edito dalla Libreria delle Donne di Milano, pubblicherà un articolo dal titolo “A proposito del sedicente Stato islamico (o Isis)” a firma di Aïcha El Hajjami.

Marocchina, Aïcha El Hajjami ha insegnato giurisprudenza a Fès e Marrakech, è ricercatrice e studiosa dell’Islam e si occupa in particolare dello studio e dell’applicazione del nuovo diritto di famiglia e della posizione giuridica e politica delle donne nell’Islam. È anche consulente per vari organismi nazionali e internazionali. È nota per aver tenuto una lezione al re del Marocco Mohamed VI durante il Ramadan del 2004 (vedi VD 75, Il re e la maestra).

L’intervento di Aïcha mi offre lo spunto per una (lunga) conversazione con la filosofa Luisa Muraro, che con lei è in relazione politica da anni, sui temi affrontati nell’articolo: Isis, Occidente, condizione delle donne. Partiamo dall’inumanità e dalla ferocia dei jihadisti, che secondo Aïcha sono “il prodotto di un’accumulazione storica di ignoranza e di frustrazioni… conseguenze di una lunga serie di aggressioni e umiliazioni subite dal mondo arabomusulmano fin dai tempi della colonizzazione; del sostegno occidentale ai regimi corrotti e tirannici nella nostra area (Saddam Hussein, Gheddafi, fintanto che servivano i loro interessi!); della rapina delle ricchezze di questi paesi da parte delle multinazionali;del perdurare dell’occupazione israeliana e del massacro della popolazione palestinese; della guerra in Afghanistan, di quella in Iraq, di quella in Libia… Senza dimenticare che l’islamismo radicale è anche una creatura degli Stati Uniti ai tempi della guerra fredda contro l’ex-URSS: Bin Laden era stato armato da loro”.

La chiave, dunque, per Aïcha è l’umiliazione. Analisi sulla quale si può facilmente concordare. Ma la diagnosi non costituisce una terapia: che cosa si deve fare per fermare Isis e le sofferenze che provoca?

“Il lavoro di Aïcha è provare a contenere e impedire il contagio del fanatismo tra i giovani maschi del mondo arabo musulmano, sia tra quelli che vivono in quei paesi sia tra i figli di immigrati nei nostri paesi. Lei lotta insieme a molte altre donne e uomini perché valga un’interpretazione più giusta dell’Islam e delle parole del profeta Maometto, contro la lettura  fanatica e la rabbia vendicativa, peraltro già esplicitamente condannate da svariate autorità religiose”.

E con quali mezzi fa questo lavoro? Ci sono altre donne impegnate a farlo?

“Il 12-14 novembre ho preso parte a un convegno internazionale a Rabat al quale state erano invitate donne delle tre grandi religioni monoteiste, e anche, come nel mio caso, donne che portavano un contributo filosofico. L’Islam è l’ultima delle tre grandi religioni, e ha raccolto molto del messaggio sia del Vecchio sia del Nuovo Testamento. Per fare un esempio: riconosce Maria di Nazareth come profeta. Maometto non è che l’ultimo di una serie di profeti che comincia con Mosè, e in questa serie c’è anche Maria”.

Che per noi non è una profeta…

“Nella Chiesa delle origini la figura di Maria era tenuta in grande conto. C’è lei a pregare con gli apostoli, quando arriva lo Spirito Santo. E’ lei a capo di questa assemblea di uomini spaventati”.

Che cosa hai visto a Rabat a testimonianza dell’impegno antifondamentalista?

“Ho visto molte donne ben presenti nel vivo delle società di religione islamica: maestre, professoresse, teologhe, consigliere di entità politiche e religiose. Sono anche predicatrici: Aïcha, che è sunnita, è titolata a predicare nelle moschee, in più c’è il suo lavoro di consigliera. Altre invece sono teoriche pure, impegnate a dimostrare come lo spirito dell’Islam sia gravemente tradito dai guerrieri jihadisti. Secondo loro è un lavoro efficace, sia nei loro sia nei nostri paesi. D’altro canto le minoranze musulmane d’Occidente si sono spesso pronunciate contro Isis, benché anche da noi vi siano giovani malconsigliati che si uniscono al jihad”.

Colpisce che sia il medesimo libro, il Corano, a fondare sia il femminismo islamico che le atrocità di Isis. Si parte dalla stessa fonte, con esiti tanto diversi.

E’ successo anche da noi. Nella civiltà europea premoderna, imbevuta di fervore cristiano, la fede è stata fonte di atti eroici, di grande devozione, della cura degli infermi in nome di Gesù… Ma nello stesso nome di Gesù altri andavano in giro a sgozzare il prossimo. Ho letto la bellissima lettera degli Ulema Sauditi al “califfo” Al-Baghdadi: gli dicono che sta sbagliando, e testo alla mano gli mostrano dove. Gli dicono: tu metti la spada allo stesso posto della misericordia, ma il Profeta ha sempre detto che la spada si usa limitatamente a certe situazioni, mentre la misericordia di Dio è assoluta, e trionfa, è scritta sul suo trono. Tu e i tuoi seguaci, gli scrivono, siete una ferita terribile per l’Islam, per i popoli musulmani e per l’umanità intera. Sul numero di via Dogana che ospita l’intervento di Aïcha è riportata la parola del Profeta, che spiega: Jihad piccolo è usare il coraggio e la spada, quello grande è tenere a bada i propri impulsi e istinti“.

Si può parlare di un movimento delle donne nei paesi islamici? Abbiamo menzionato personalità femminili eminenti, che fanno un grande lavoro: ma c’è qualcosa che somigli a un movimento delle donne come noi lo conosciamo?

“Ci sono paesi più vicini al nostro modo di concepire la politica, come la Tunisia: lì c’è una base di movimento femminista, con associazioni e gruppi, ispirato al femminismo francese. Ma c’è anche un femminismo che vuole salvaguardare e custodire i valori religiosi, un femminismo che passa attraverso la parola. Aïcha appartiene a questo tipo di femminismo. Io l’ho conosciuta a Parigi, lei ha spiegato la strada che stava intraprendendo con altre e ci sono state critiche di femministe marocchine che avevano una formazione laica, e che chiedevano la separazione tra Stato e Chiesa, tra religione e politica. Io invece mi sono convinta della bontà degli argomenti di Aïcha”.

Quel legame tra la libertà femminile e Dio, tu come lo pensi? Come un limite di quel femminismo o come una risorsa? Te lo chiedo in particolare per il fatto che hai dedicato gran parte del tuo lavoro degli ultimi anni al pensiero delle mistiche.

“La borghesia occidentale ha voluto la separazione non solo tra Stato e Chiesa, separazione che è benefica, ma anche tra religione e la politica. E’ un’operazione finta. Di tutto si può fare politica, anche della fede. E la borghesia ce ne ha dato più volte dimostrazione. Queste realtà che riguardano gli esseri umani non sono separabili. Sono anche sicura che una religione meno costruita della nostra, in cui c’entra molto il potere degli uomini e il prestigio del sesso maschile, una religione più libera, più fluida, come quella che si vive nella tradizione mistica, per le donne sia la possibilità straordinaria  di dialogo interiore con l’Assoluto, con il divino, con l’Amore. Quelle che io ho incontrato ne hanno guadagnato forza per sé”.

Che cosa sta sfuggendo di essenziale nella percezione comune, quando parliamo di Islam? E in particolare quando parliamo delle donne di quei paesi, di cui in questo momento non sentiamo la voce?

“Ci sfugge  la dimensione spirituale. Il senso della giustizia, della pietà, della misericordia. La puntura dell’interiorità, che non va intesa come la intendiamo noi. Si tratta di una dimensione interiore costantemente curata insieme al comportamento esteriore. Noi vediamo una interpretazione molto maschile dell’Islam, ma l’Islam non è quello. Nell’Islam c’è anche una cultura di separazione fra i due sessi. Noi la intendiamo solo come segregazione femminile. Ma in una società dove gli spazi sono più grandi dei nostri piccoli appartamenti, le donne hanno grandi spazi per vivere tra loro, e per vivere bene, con agio, una vita civile. Il nostro immaginario è deformato perché l’immigrazione mette queste donne e questi uomini in situazioni pesanti, difficili da sopportare, e quindi questo agio femminile qui non lo vediamo. Però non si può negare che nelle campagne povere l’Islam sia una forma di patriarcato, com’è stato il Cristianesimo nelle nostre campagne povere fino a non molti decenni fa, quando gli uomini comandavano totalmente sulle donne, e questo veniva rivestito di Cristianesimo”.

Aisha scrive: “Abbiamo bisogno di un pensiero critico sul nostro patrimonio religioso e culturale, così come sulle sfide che ci vengono dalle ricadute della modernità e dalla globalizzazione. Dobbiamo occuparci di risolvere la problematica del rapporto tra religione e politica, la problematica dei diritti umani e soprattutto dei diritti delle donne. Bisognerebbe anche agire sugli aspetti economici dello sviluppo e aver cura di assicurare una suddivisione equa delle risorse nazionali. Il jihâd di cui abbiamo bisogno è quella del pensiero. Ha un nome nella nostra cultura: l’ijtihâd”. Non dovremmo, a tuo parere, contribuire da occidentali a questa lettura critica? Dire esplicitamente, per esempio, che per una donna e per la sua libertà quella cultura è meno ospitale della nostra?

“No, non sarebbe giusto. Le differenze culturali sono così profonde che rendono incommensurabili le situazioni. Il nostro compito è far conoscere la nostra cultura e la nostra civiltà senza complessi, ma anche conoscere meglio, più profondamente e dare più ascolto alla loro civiltà”.

E quali sono le occasioni di ascolto, qui in Occidente?

“Ormai nelle periferie è possibile intrecciare relazioni reali con questa gente. Nella scuola dei miei nipotini ci sono brave maestre che stanno facendo un grande lavoro di integrazione rispettosa. Davanti a scuola vedi madri di bambine e bambini italiani e stranieri. In attesa della campanella ascoltavo i discorsi, e devo dire che talvolta le cose andavano bene, talvolta no. Molte madri milanesi erano esposte all’influsso di discorsi xenofobi, ripetevano luoghi comuni, magari anche con argomenti non infondati: bisogna sapere ascoltare le popolazioni delle periferie che sono messe in difficoltà da questa immigrazione povera. Il problema è questa povertà. L’Islam che queste mamme milanesi vedono è povertà e difficoltà”.

Ma se non ammettiamo l’inevitabilità di un quid di xenofobia, rischiamo che siano i razzisti e gli xenofobi veri a dare parole estreme a questi sentimenti di disagio…

“Sono d’accordo. Occorre generosità sia nei riguardi degli immigrati sia nei riguardi di quelli che fanno fatica in questa convivenza. Prima avevano una vita tradizionale in cui i loro modi di pensare e di essere erano pacifici e universali, e all’improvviso si trovano davanti a presenze che li mettono in discussione. In più c’è il problema della lingua, del capirsi. Le maestre fanno grande opera di civiltà. Non fanno prediche a nessuno, mostrano affetto per i bambini degli immigrati e quindi sono amati dalle loro madri e dai loro padri, e poi hanno buoni rapporti con le madri locali, fanno feste a fine anno dove tutti contribuiscono con il loro cibo. Questo lo fanno anche tante associazioni, le parrocchie, sempre all’insegna del buon esempio e senza fare prediche. Bisogna essere severi con chi per tirare su voti semina odio: con questi no, non si deve essere indulgenti”.

Al di là di queste relazioni quotidiane, con queste donne si può costruire un legame più propriamente “politico”?  Un lavoro di coordinamento, di riflessione comune?

“Io ci riesco solo a livello di scambio colto con studiose di quei paesi. Ma il livello “politico” come lo intendiamo noi, che con la Rivoluzione Francese, e via via con i partiti di sinistra, con il movimento operaio e così via, ci siamo abituati a un agire che coinvolge anche i ceti medi, anche le persone meno attrezzate e più semplici, in altre situazioni non esiste. Per esempio sono stata in Africa, nel Burkina Faso, e ho provato a spiegare alle donne di lì questa forma di agire politico, ma non sono riuscita a fare loro capire che cos’è. Loro concepiscono provvedimenti calati dall’alto che aiutino i poveri. L’idea dei movimenti, della mobilitazione sfugge”.

Recentemente a Padova c’è stato il caso di alcuni profughi che hanno rifiutato di essere visitati da mediche, e l’Asl ha dovuto richiamare tre medici maschi pensionati per accontentarli.

“Dicevamo prima che loro sono abituati a una forte separazione tra i sessi. Vedersi toccare intimamente da una persona dell’altro sesso contravviene a un forte pudore che è anche maschile. Anche a Rabat c’erano uomini, partecipanti al convegno o servizio d’ordine o camerieri. Loro evitavano il contatto fisico in ogni modo. Quella Asl ha fatto molto bene, è stato un atto diplomatico e di grande civiltà”.

Tu non vedi il rischio di assecondare sentimenti misogini?

“Le emozioni che una persona ci mette dentro possono essere le più varie. Ma le interpretazioni –è misoginia, è disprezzo eccetera- ci portano già nel terreno scivoloso della mancanza di rispetto per l’altro”.

Ma dopo questo primo impatto in cui vengono dimostrati rispetto e pazienza, non si può cercare di spiegare: qui le cose vanno diversamente, dovete adeguarvi?

“Il tema è quanta capacità di adattamento abbiano questi immigrati. Io credo che la capacità sia diminuita dalla rabbia per quello che hanno vissuto nei loro paesi. Lì si è accumulato risentimento verso l’Occidente che li ha colonizzati, sopraffatti. Non è stato dato loro il tempo di recuperare il ritardo in cui sono finiti perché lo sappiamo com’è il capitalismo, che ha la terribile fretta del profitto. I cinesi si difendono bene e si adattano velocissimamente, e in fatto di capitalismo abbiamo solo da imparare da loro. I latinoamericani si inseriscono facilmente, favoriti dalla lingua e dalla comunanza di religione. Per i musulmani è più difficile. Sono popolazioni orgogliose e irrigidite nelle loro posizioni. In città meno grandi di Milano ho fatto esperienza di donne mussulmane ospitali e rilassate. Ricordo che anche tra gli emigrati italiani nella zona miniera del Belgio, che ho visitato da giovanissima, le donne davano prova di maggiore elasticità degli uomini, specialmente dei padri di famiglia”.