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solitudine

AMARE GLI ALTRI, economics Luglio 14, 2012

Diventare più ricchi

Non ricordo chi l’ha detto: “L’Occidente è il Terzo Mondo delle relazioni”. Un teologo missionario, se non ricordo male. Ma mi batte in testa da anni, forse ve ne avevo anche già parlato.

E’ questo, la solitudine, la fragilità della famiglia, il dissolvimento della comunità, a costituire la nostra povertà più radicale. E’ la vera paura di ogni madre e di ogni padre, che il proprio figlio, così spesso unico, rimanga solo. Lo temiamo anche per noi stessi, di restare soli, circondati dal mare cupo dell’indifferenza. Della risorsa relazionale, invece, quello che chiamiamo Terzo o Quarto Mondo è ben più ricco di noi (con tutte le luci e le ombre).

Cosicché, come in un gioco di bambini –“celo”, “manca”, si dice dalle mie parti- si potrebbe immaginare uno scambio: noi vi diamo un po’ di risorse economiche e materiali, o anche ve ne rubiamo un po’ meno. Voi ci re-insegnate il bene della relazione. Voi imparate a rispettare di più persona all’interno del gruppo, noi disimpariamo un po’ di “individuo”. E così via. I giochi dei bambini sono cose serie. C’è sempre da imparare anche da loro. In questa logica di scambio forse si trova la chiave per prepararsi al giro di boa epocale che ancora in troppi pensano di poter evitare, o quanto meno rimandare.

La Terra non ce la fa più. Non ci sostiene più. Non è più in grado di sopportare lo squilibrio tra l’inumano egoismo di pochi e la disperazione dei moltissimi, dei sempre di più. E chiede a noi, parte di quei pochi –ancora per poco- di restituire risorse materiali, intellettuali e spirituali accumulate, per investirle nella ricerca di un nuovo punto di equilibrio. Ci chiede, questo è certo, di rinunciare a una parte considerevole dei nostri privilegi. Ma il desiderio di guadagno, di stare sempre meglio, è essenzialmente umano, e non va condannato.

Anche la rinuncia cristiana è praticata in cambio di un bene più grande, la benevolenza di Dio. Il bene più grande in nome del quale rinunciare, qui, non potrebbe che consistere in questa risorsa a costo zero, fonte rinnovabile di energia, che è l’amore per gli altri, che è la gioia delle relazioni e dei legami. E nella libertà di potersi sottrarre al dominio crudele del denaro. E insieme, forse, anche nel poter ancora sperare nella benevolenza di Dio.

Il cambio, mi pare, sarebbe vantaggioso.

AMARE GLI ALTRI, esperienze, Politica Agosto 28, 2011

Scandalo al sole

Nel giro di un paio di giorni le città torneranno nella normalità, piene di gente abbronzata e traumatizzata dal rientro -già avuto un paio di interazioni automobilistiche poco piacevoli-. Riapriranno anche i negozi, che sono gli occhi della città, la vita torna a battere il suo ritmo, che a Milano è frenetico e ossessivo: qui l’estate finisce con agosto, senza proroghe, senza dolci appendici, come a Roma, senza ponentini o ottobrate. Caldo o non caldo, tutti a laurà.

Mi auguro che sia davvero l’ultima volta che chi resta in città, e sono ogni anno di più, venga punito con un vuoto pneumatico di commercio e servizi, chilometri senza trovare un bar, call center a cui nessuno risponde mai, presidi sguarniti, giusto quattro cinema e il fresco del supermarket: e grazie al cielo ci sono gli “stranieri” che tengono aperto, non avvezzi all’assurdo dei black out agostani.

Dev’esserci una proporzione sensata tra il numero degli abitanti e i servizi erogati. Non è più possibile sentirsi abbandonati in città, solitudine e angoscia, e se hai un problema te lo tieni, tutto chiuso per ferie, mentre sono sempre meno quelli che possono permettersi di andare al mare per più di una settimana.

Non ci sono altre città del mondo in cui questo capita, e deve smettere di capitare anche qui. Per avvicinarsi all’obiettivo, occorre cominciare a pensarci da adesso. L’augurio è che sindaci e giunte vecchi e nuovi ci lavorino seriamente, severamente e da subito.

Senza categoria, TEMPI MODERNI Aprile 27, 2009

L'INVENZIONE DELLA SOLITUDINE

Mi domando se Roberta Tatafiore non abbia deciso di andarsene “semplicemente” perché stava diventando vecchia, come lo diventiamo tutti, e non sopportava l’idea di se stessa bisognosa e dipendente, senza nemmeno una figlia -o almeno un figlio- a cui appoggiarsi. Mia madre e io abbiamo sempre molto litigato, ma credo che oggi, pur dichiarando a ogni pie’ sospinto la sua orgogliosa autosufficienza, lei si senta molto rassicurata dalla mia presenza e dalla mia costante attenzione. Una figlia femmina, capace di cure, è una grande risorsa. Con i maschi in genere è tutto più complicato.

Risparmiamo e investiamo molte risorse in pensioni integrative e altri congegni di sicurezza, ma la gran parte di noi, se tutto andrà bene, potrà contare solo sulla pazienza di una ragazza ucraina o sudamericana che magari avrà dovuto lasciare i suoi figli per venire a occuparsi di noi. Figuriamoci che felicità.

Questo modo di condurci è scellerato, e alle generazioni che seguiranno andrà probabilmente peggio. Abbiano disfatto la famiglia, e non siamo riusciti a inventarci nient’altro che solitudine, noi, animali naturalmente sociali. Ma a tutto questo non poniamo mai attenzione.

Donne e Uomini, TEMPI MODERNI Marzo 30, 2009

AL POSTO DELLA FAMIGLIA

Pensavo in questi giorni alla famiglia. Alla sua crisi oggettiva e irreversibile, e non c’è nostalgia che tenga. Alla sofferenza del “provare e riprovare“, come dice il sociologo Marzio Barbagli. Al fatto che, tolta la coppia madre-bambino (padre-bambino molto più raramente), non vi è più nulla di certo, se non la possibilità della solitudine. E anche al fatto che la solitudine è una condizione non meno oggettivamente inumana, perché un individuo umano solo fa perfino fatica a essere individuo.

La famiglia ha funzionato per alcuni millenni, ora non tiene più, e si deve prenderne atto. Mi piacerebbe che si inventasse qualcosa, un modo di vivere per gli esseri umani, che non fosse la resa dello starsene soli. Ma che cosa?

Archivio Settembre 22, 2008

TI CHIUDO FUORI

Nel paesello dove passo l’estate una volta, mi dicono, di recinzioni non ce n’erano. Un ameno continuum di verde, campi e boschi, senza reti né grate. Forse è stato con l’arrivo di noi orribili “milanesi” che le cose sono cambiate. Muriccioli, siepi, una proprietà separata dall’altra, come sintomi di un diffuso disturbo. Un giorno sto passeggiando con il mio vecchio cane lungo il sentiero che conduce a una torre saracena, che oggi è un’abitazione privata. Una giovane signora, elegante nel suo caftano, si affaccia da un cancello: “Lei dove va?”. “Di là” dico, e indico i campi che si affacciano su una dolce vallata. “Di là non c’è nulla. Solo case private”. “Però non mi risulta” rispondo “che il sentiero sia privato”. La bella signora ci pensa un po’ su. Vuole fermarmi, ma non sa come diavolo fare. “E i sacchettini? Ce li ha i sacchettini?”. Estraggo dalla tasca quattro o cinque contenitori igienici. Il mio vecchio Tom è un ragazzo pulito. La signora è costretta alla resa. Indietreggia, senza più argomenti.
Peccato. Avrebbe potuto regalarmi un bel sorriso, fare due chiacchiere con me, offrirmi un tè o qualcosa del genere. Stare chiusi e da soli, ancorché in un eremo principesco, prati all’inglese, piscina e ogni genere di comfort, non dev’essere poi così divertente. Dopo un po’ che sto chiusa io soffoco. Sento il bisogno di altri esseri viventi e comunicanti.
Sono decisamente in minoranza. I più –almeno all’apparenza-intendono chiudere, recintare, costruirsi il loro microcosmo autarchico, privatizzare sentieri, impedire l’accesso, sottrarsi alla scocciatura dell’interazione e della relazione. Il lavoro da fare, invece, sarebbe un altro. Aprire, spalancare, e darsi da fare per costruire il senso di ciò che è comune. Amarlo tutti insieme, investirlo delle energie di tutti, impregnarlo dei nostri migliori sentimenti, renderlo sacro.
Non per fare Totò: ma ne avremo di tempo per starcene chiusi, soli e “privati”, con quattro mesti fiori secchi a ricordarci, se qualcuno avrà il garbo di portarcene. Il più del tempo è solitudine. La vita è soprattutto gioia e fatica delle relazioni. Ma la sprechiamo a dimostrare in tutti i modi di non averne bisogno. Dire il desiderio dell’altro è diventata la vergogna numero uno.

Archivio Maggio 29, 2008

LA COMUNIDAD

Ho avuto la fortuna di crescere in una famiglia “aperta”. In casa si stava poco, i confini con l’esterno erano molto labili, e andava bene così. Forse per questo sono sensibile a un tema poco discusso, che chiamerei “estinzione della comunità naturale”: non sono una sociologa, e le cose le dirò come posso.
Si parla molto di individuo, con tutto il suo corredo di diritti e solitudini; e di famiglia “in crisi” –famiglia e crisi sono termini che viaggiano in coppia-, bisognosa di sostegno. Quasi mai si parla della comunità del posto in cui si vive, che sta alla famiglia come il nucleo familiare sta al singolo, e dunque per le famiglie costituisce il primo e più arioso sostegno.
Una cosa che l’ha fatta indebolire probabilmente è il fatto che i luoghi di lavoro sono quasi sempre lontani da casa. La gente se ne va la mattina e torna la sera per vedere un po’ di tv e per dormire, attività spesso coincidenti. Il sabato la spesa, il week end fuori per chi può permetterselo. I posti dove si vive sono gusci vuoti, brutti come sono esemplarmente brutte le nostre periferie, proprio perché vuote di relazioni e quindi di amore e di bellezza. Il fatto che anche le donne si siano messe a lavorare abbandonando i posti di vita ha dato il colpo definitivo. Deboli surrogati, le comunità che si creano sul lavoro, o legate alla scuola dei figli, o alla palestra, o a non so cosa.
Mi stupisce molto che non se ne parli, perché un sostegno alle comunità –non saprei bene come- risolverebbe in un colpo vari problemi: si ricreerebbe un welfare spontaneo, darsi una mano tra famiglie per tante cose, dalla spesa all’assistenza di chi ne ha bisogno; questo “terzo polo” garantirebbe l’individuo contro la perversione delle relazioni nel suo nucleo stretto, e di rapporti familiari perversi e ammalanti ne vedo sempre di più; ci sarebbe meno andirivieni avanti e indietro dai propri quartieri, e quindi meno macchine, meno traffico, meno inquinamento; i quartieri anche periferici sarebbero più belli e vivibili. Forse l’aumento del lavoro autonomo, del telelavoro e delle cosiddette microimprese individuali, gente che lavora in solitudine tra le sue quattro mura, casa e bottega, riporterà il tema della comunità al centro dell’attenzione.
(pubblicato su “Io donna”-“Corriere della Sera”)

Archivio Maggio 29, 2008

CI VUOLE UN FISICO BESTIALE

Si tratta di scegliere tra due inferni: l’inferno della coppia, o quello della solitudine. E’ quello che dico di solito alle amiche zitelle che non si decidono: buttare all’aria l’ordine perfetto delle loro cabine-armadio per fare (o rifare) spazio a giacche e cravatte? o archiviare la pratica in via definitiva?
Le single sono state celebrate e vituperate da almeno un decennio di stampa e di cinema. Propaganda fruttuosa: sono sempre di più, originarie o di ritorno. A Berlino i soli hanno superato gli imparentati. L’eventualità di una vita da soli entra ormai a far parte di ogni educazione sentimentale illuminata. I figli li si vorrebbe vedere “sistemati”, certo, e se il posto fisso è un miraggio, almeno un partner fisso, casomai due, e magari un paio di bambini. Ma poi la vita va come va, ed è meglio prepararli. Meglio che siano attrezzati per stare sulle loro gambe: saper fare conto su se stessi è sempre una cosa buona, certo, anche quando si viaggia in due.
Ma c’è un difetto, mi pare, in questa impostazione: che venuto meno l’obbligo di sposarsi, alla famiglia non si fa più pubblicità. Anzi, mettere su un nucleo e tenerlo in piedi è diventata un po’ una cosa da sfigati. Parlando di Berlino, dice lo scrittore Peter Schneider: “Si fa strada l’idea che che fare bambini e famiglie sia un affare per il Terzo mondo… E’ una perdita, per gli adulti come per i bambini. Non è uno sviluppo positivo per la società”. Come se ormai la solitudine fosse la condizione umana naturale, e la coppia un’eccezione.
Ma ai ragazzi va detto anche questo: che per stare soli ci vuole un fisico bestiale. Ci dev’essere qualcosa di molto importante da fare in cambio, una missione, un challenge, qualche genere di “figlio” che ti risarcisca. E se è vero che anche in coppia ci si può sentire soli, mai come si è soli da soli, però. Certo, ci vuole pazienza e rispetto per l’altro, che resterà sempre un altro, anche se ce lo sposiamo. Eventualmente ammirazione per la sua differenza. Si può stare benino, a saperci fare.
L’essere umano sembrerebbe congegnato per il due: ma mi pare di dire un’eresia, ci credete?
(pubblicato su “Io donna”-“Corriere della Sera”)

Archivio Maggio 29, 2008

UNA GRANDE FAMIGLIA

Oggi è l’8 marzo. E tanto per essere chiara non ho nessuna voglia di parlare di aborto, cosa di cui peraltro fatico a parlare in qualunque altro momento dell’anno. Non ho voglia nemmeno di parlare di single, di emancipate, di quote, di glass ceiling, della forza delle donne, di pari opportunità, di conciliazione dei tempi, di allegre pizze tra colleghe d’ufficio con i mazzetti di mimosa nel portatovagliolo. Né tanto meno voglio parlare di strip maschili e di sguaiate signore che infilano banconote nei perizoma.
Oggi mi è venuta voglia di parlare di famiglia, e della grande nostalgia che ne ho. Guardo la mia famigliola striminzita, 4 cane compreso, sparpagliata nella grande casa, e mi faccio una certa pena. Penso a chi non ha nemmeno questo, e il cuore mi si stringe anche di più. Penso alla mia famiglia d’origine, allegrissima e allargatissima ad amici, vicini, cristi di passaggio. Un carrozzone festoso e incasinato, avete in mente certi flash back di Woody Allen? chiassose tavolate kosher nella vecchia Brooklyn, la zia zitella, il nonno, il cugino intellettuale, non uno uguale all’altro, il trionfo della singolarità.
Che strano, mi viene da dire: oggi che siamo finalmente individui, che la dimensione comunitaria è stata fatta fuori, ci somigliamo tutti, avete fatto caso?  perfettamente interscambiabili, uno che vale l’altro, vestiti allo stesso modo, la stessa amara piega nasogeniena, segno inconfondibile della solitudine umana.
Mi fa schifo come viviamo, non siamo nati per questo, vorrei potermi chiudere in una stanzetta con i miei libri, tappandomi le orecchie come facevo da bambina, vorrei il caos della vita intorno a me, vorrei i miei genitori che stavano al bar fino all’una di notte perché era tutto troppo divertente per andare a dormire, e io che gli crollavo in braccio. Vorrei una grande famiglia, una famiglia però senza padroni, piena di fiducia, di allegria e di libertà, piena di vecchi e di bambini, e le chiacchiere delle donne in cucina. Abbiamo cercato altro, e non ci è venuto benissimo. E’ il momento di dirselo. E’ quello che penso, e ve lo offro con tutto il cuore.
(pubblicato su “Io donna”- “Corriere della Sera”)

Archivio Maggio 29, 2008

IL PAESE SIAMO NOI

Capiterà anche a voi di sentir parlare o anche di parlare, non senza un certo compiacimento postmoderno, di “spaesamento”, di “non-luoghi” e di “iperluoghi” (new entry). Cioè di quel sentirsi soli e da nessuna parte che patiamo ogni giorno. Senza radici, senza legami, di passaggio nei posti del nostro quotidiano: al supermercato, sul tram, al lavoro, nella cucina di casa (per non parlare della camera da letto).
C’è una vera estetica che canta gli spazi sterminati, il vuoto di relazioni, il flash degli sguardi, l’umanità virtuale, i surgelati e il discount. Una cosa un po’ infantile: come da bambini, quando si faceva sosta in autogrill, posto “moderno”, americano, colorato, il formaggio senza sapore nei panini, l’odore di disinfettante nei bagni, i pupazzi con le caramelle, le facce un po’ sfocate e tutte uguali di quella gente che non si sarebbe mai più rivista.
C’è però anche una contro-estetica non meno amata dalla pubblicità, specie a Natale. Una poetica dei sapori genuini e delle vecchie cose di una volta, il tinello, l’albero, il vino con le caldarroste. Uno straccio di amico d’infanzia che sa davvero chi sei, come sei, e che è al corrente di buona parte dei fatti tuoi (e casomai li spiffera in giro).
Non credo che il rimedio stia in certe radici artificiali: una casa in campagna con camino -gran bella cosa, comunque-, il ritratto a olio di una finta trisavola scovato al marché aux puces. La nostra dotazione di rimedi l’abbiamo dentro: si tratta di attivarla e di giocarsi. Si tratta non di negare lo spaesamento e l’angoscia, di riconoscerli e accettarli e di mobilitare energie inverse. Di farsi paese per se stessi e per gli altri, luogo ospitale dove passa verità e umanità, posto che gli altri e le altre possano a loro volta attraversare, riconoscendosi e radicandosi. La radice siamo noi. Si tratta di accettare di sembrare un po’ matti, all’inizio, quando si parla con il tassista, si sorride all’impiegato di banca e al vicino di tram, gli si fa capire che i fatti loro li sentiamo come nostri e siamo pronti a farcene carico. Però funziona.
(pubblicato su “Io donna”- “Corriere della Sera”)