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Al take-away filippino di Ester, salvezza delle donne multitasking di via Padova, la scelta è tra pollo, manzo, verdure. Roba onesta, da vecchia mama, che puoi dare anche ai bambini. Ma certi perdigiorno marocchini (“troppi casinista”) Ester non li vuole. Un porcello di ceramica presidia il bancone. “Qui solo maiale, gli dico”. Per niente halal. E quelli scappano, inorriditi.
Chiamatela astuzia, o genio femminile. In qualche modo dovrai fare per non entrare in collisione. Qui, in questi 4 chilometri di via che i milanesi hanno sempre promosso a “viale” -non una banlieu tipo Clichy-sous-Bois ma a 5 minuti in auto o 3 di metrò dalle case del quadrilatero- vivono spalla a spalla 50 nazionalità. Cinesi, maghrebini, filippini, latinos, senegalesi, ucraini, burkiniani. La zona più multietnica di Milano, 42 per cento di stranieri all’anagrafe, 50 per cento nella realtà. Un mix di giovani coloured e vecchi bianchi nati, cresciuti lì o a loro volta immigrati, come quel cervelée (macellaio), ringhiera del 70, che fa lo spiritoso -“ciao bambolina”- con la peruviana sinuosa che lo chiama “papà”.
Tutta questa roba insieme fa un’energia pazzesca. Con i cortocircuiti che sappiamo: dov’è morto accoltellato il ragazzo egiziano Amed Aziz El Sayed ci sono ancora fiori. “Il ghetto”, “la casbah”, “il Bronx”. Eppure, fa i conti la Cei, “la percentuale di criminalità tra italiani e stranieri è analoga».
Se fai correre le emozioni, in questo “pezzo di città” -come lo chiama con sussiego la sindaca Moratti- senti la Londra caraibica di Brixton, posto dei Clash e di Skin; o di Spitafield-Banglatown, quartiere del malfamato East End a ridosso della City, oggi quasi totalmente gentrificato (imborghesito): i turisti, le antiche case dei primi migranti ugonotti abitate da artisti e modaioli. Tutto grazie a un intervento pubblico- riqualificazioni ed eventi- che ha coinvolto le realtà locali, ispirandosi al principio del “rich mix”, il melting pot come risorsa. Perché i nostri amministratori non ci fanno un giro?
“Dici via Padova e sei fregato, non spunti più di 2500 euro al mq” piangono i proprietari con le spalle al muro. Si farebbero ottimi affari avendo lo sguardo lungo, come chi ha comprato a suo tempo a Porta Venezia, la prima casbah, e in Ticinese, già “post de lader”, posto di ladri. Qualche dietrologo sospetta una megaspeculazione dietro la campagna diffamatoria. Intanto gli affari li stanno facendo i cinesi, mitici compratori cash.
La gentrification è già visibile nel tratto tra piazza Loreto e la rotonda: marciapiedi ampi e ciclabili, belle case novecentesche, kebab extralusso, un elegante coiffeur che per distinguersi dai salon cinesi, piega a 6 euro, si fa chiamare “consulente d’immagine”. Ma il “viale” è più giusto farlo in senso inverso, dalle ville di delizia sul naviglio Martesana a Crescenzago, posto di villeggiatura fuori le mura inurbato negli anni Venti. Il vecchio municipio, oggi sede del Corpo musicale, è stato sventatamente cartolarizzato. Renzo Tramaglino passò di qui, antica Via Veneta, per raggiungere Porta Orientale. E forse si ritemprò in questo borgo miracolosamente intatto: la splendida chiesa romanica di Santa Maria Rossa, i chiostri del convento riconvertito in abitazioni. Il silenzio perfetto ha conquistato Franco La Giannella, proprietario delle libreria del Corso, transfuga da corso Buenos Aires: “Ti svegli con le campane e con le voci umane, i cani scorrazzano in giardino, i vicini ti salutano”. E’ il bene primario delle relazioni.
Fino a Loreto, dov’era il santuario dedicato alla Madonna Nera, era tutto un bosco. Giunti lì si ringraziava la Vergine per averla scampata dai briganti e dai lupi: “L’ultimo fu avvistato alla Gobba nel 1901” dice la scrittrice Sveva Casati Modignani, nata e residente in via Paruta, esemplare della sparuta e spaesata “gentry” locale. I briganti, invece, ci sono ancora. E anche qualche lupo in agguato, specie tra il ponte e la rotonda. Sveva vorrebbe una class action contro la giunta milanese che non ha governato i flussi migratori. Ricorda l’età dell’oro: il fosso, i prati con il sambuco, le libellule, l’arena estiva con Lucia di Lammermoor. I buoni vicini, come il professor Castelluccio, preside napoletano, avanguardia dell’ondata terrona dei 60. Dopo i mantovani, i bergamaschi e i veneti in fuga dal Polesine, toccò ai siciliani e ai pugliesi assunti dalle fabbriche del boom, l’olio d’oliva e le esotiche melanzane (“ball d’i fràa”, palle di frate), i casermoni come funghi.
“I problemi erano gli stessi” dice un’anziana volontaria della Caritas “ma non erano così in tanti. Per questo è dura”. Nella parrocchia di San Giovanni Crisostomo c’è un centro d’ascolto e un “guardaroba”. La Chiesa fa un gran lavoro per l’integrazione. La signora è anche andata a un corso sull’Islam: “Nelle famiglie ti accolgono. Hanno una venerazione per noi mamme e nonne”. Il guaio dice, sono quegli uomini soli ammucchiati in case degradate, diventate posti di spaccio e microcriminalità. Quei proprietari che hanno affittato case in cui nessun italiano abiterebbe: niente ristrutturazione –prendere o lasciare- e a caro prezzo. Lo raccontano bene Alfredo Agustoni e Alfredo Alietti in “Società urbane e convivenza interetnica” (FrancoAngeli), istruttivo saggio proprio sul caso via Padova.
Là dove c’era l’erba oggi ci sono kebab, botteghe cinesi, minimarket con quinoa e Inka Cola, phone center, boutique delle unghie, massaggi thai, le vetrine della Casa della Carità di don Colmegna. Il vecchio cinema Ambra che fa strip tease, ex-capannoni riconvertiti in Chiese evangeliche. Vecchiette con il carrello, ragazze velate, ucraine monumentali, e una marea di bambini. L’odore del pane e il ritmo del merengue. Un energizzante caos iper-metropolitano, pieno di vita e di fatiche.
L’epicentro del sisma – via Clitumno, via Arquà- è dopo il ponte della ferrovia. Maria Mesch, pittrice bavarese capelli arancio fluo, aria da Berlino-Kreuzberg, ha riattato un negozio per farne casa-e-bottega (associazione Durchblick) per sé, marito, bambino e cane. Prima stava a Milano 2, poi a Città Studi. Si è spostata lì semplicemente “perché è bello. L’atmosfera conta, per il mio lavoro. E anche gli amici”. Guai dice di non averne mai avuti. Per strada saluta tutti. Indica con orgoglio i pregi locali: la pasticceria napoletana, il negozio dove un milanesissimo signore vende a buon prezzo prezioso sapone d’Aleppo, direttamente da suk a suk.
E il parco Trotter-Casa del Sole, progettato da Giovanni Ceruti, archistar del tempo, nato un secolo fa come colonia estiva. Un po’ malconcio e bistrattato, ma ne sono tutti innamorati persi. E’ il cuore pulsante di Babele. Oltre alle scuole –ci va anche la figlia di Malika Ayane superstar, che di via Padova dice “è come stare al porto, con tante famiglie straniere in cerca di fortuna” -, c’è un teatrino che ospita tra l’altro una ricca rassegna di poesia. Mercatini, cricket, associazioni di ogni tipo. Un laboratorio di scrittura creativa sul modello del mitico 826 di San Francisco.
“Quando leggo certe storie sui giornali, dico: ma io mica abito lì. Qui facciamo anche aperitivi di condominio”, dice Francesca Federici, sposa veronese, zona via Arquà. Matteo da via Moscova ora sta in un delizioso villino del “ghetto”: “Era dura qualche anno fa” racconta “quando i negozi italiani chiudevano. Oggi è vivissimo, i marciapiedi sempre pieni: queste sono culture che vivono in strada”.
Controlli, sì: le ferite infette vanno sanate. Polizia: le regole vanno rispettate. Ma servirebbe anche un’operazione di “marketing territoriale”. Idee di giovani creativi. Designer e stilisti che adottino la via. Un po’ di mecenatismo ambrosiano. Il “rich mix”, per l’appunto.
Per ora in programma c’è una festa il 22-23 maggio, messa in piedi da 50 associazioni. Titolo –addirittura-: “Via Padova è meglio di Milano”, come ha detto una volta un bambino. Ci suonerà anche l’Orchestra di via Padova, messa insieme grazie a Maximina, edicolante spagnola. E’ stata lei a presentare al direttore Massimo Latronico, terrone di Lucania, musicisti di dieci nazionalità, dall’Albania al Perù.
“Dite a mia mamma di non piangere/ tuo figlio, Dio non lo abbandonerà” canta il marocchino Aziz Riahi in “Esiliato”. Sembra “Lacreme Napulitane”. Ma in repertorio anche canzoni d’amore.

pubblicato su Io donna-Corriere della Sera il 20 marzo 2010