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empatia

AMARE GLI ALTRI, ANIMALI, esperienze Dicembre 21, 2008

IL BENE CHE RITORNA

Qualcuno l’ha stampato come biglietto di Natale, da mandare gli amici. Mi fa molto piacere! Nel caso vi servisse…

Il mio vecchio cane Tom è pieno di artrosi. Gli massaggio le spalle e la colonna, gli muovo le articolazioni arrugginite, sperando di dargli sollievo. Lui ricambia le mie energiche carezze con sguardo dolcemente grato. Si capisce che quanto meno non gli dispiace. E ogni volta, alla fine del massaggio, le mie spalle sempre contratte sono un po’ più sciolte, la mia colonna meno indolenzita. Come se qualcuno avesse massaggiato me, e proprio in quegli stessi punti.
L’ho provato anche con gli umani: un’“impastata” al trapezio di un amico, e anche il mio trapezio si è sentito meglio. Non so esattamente come capiti. Deve avere a che fare con il meraviglioso e misterioso meccanismo dei neuroni specchio, che evidentemente funziona anche tra specie diverse. Tu vedi qualcuno che ha due occhi, un naso, una bocca come la tua: o anche tratti diversi, da vivente di altra specie, ma antropomorfizzato dal tuo amore. Cogli sul suo viso espressioni di gioia, di paura, di dolore. E nel tuo cervello si attivano gli stessi circuiti neuronali- della gioia, della paura, del dolore- che presiedono alle emozioni manifestate dall’altro. Senti quello che sente lui, o quasi. Su questo meccanismo stupefacente si basa la possibilità di empatia tra soggetti diversi, e quindi l’esperienza del legame.
Così, stiracchiando il ginocchio del mio Tom, ho pensato che così come fargli del bene mi fa stare bene, fargli del male mi farebbe stare male. E che ogni volta che auguriamo il male a qualcuno, o gliene facciamo, credendo di trarne soddisfazione -per rabbia, per vendetta, per antagonismo-, l’urto del male investe anche noi. Il male che fai, come dice la saggezza popolare, “ti ritorna”. L’odio che provi ti infesta. L’invidia ti corrode. Al contrario, disarmarsi e astenersi dai cattivi sentimenti –non è poi così difficile: si tratta di cominciare, e pian piano ci si abitua-, o addirittura, scandalosamente, “amare il tuo nemico” e provare compassione per lui, lo lascia stupefatto e lo disarma a sua volta, spalancando il suo cuore all’unisono con il tuo.

Ho pensato a un regalo da farvi a Natale, cari lettrici e lettori, e ho scelto questo. Tanta felicità per la luce che ritorna.

(pubblicato su Io donna-Corriere della Sera il 20 dicembre 2008)

Archivio Agosto 25, 2008

SENTIRE L’ALTRO

“Credo di avere sempre avuto qualche difficoltà nelle relazioni. Sono una persona solitaria, individualista, anarchica. Ho sempre voluto essere autosufficiente. Ma nel tempo il bisogno degli altri si è fatto sentire di più. I rapporti sono diventati via via più importanti per la mia vita. Bella contraddizione…”.
E’ a partire da sé e dalle sue relazioni, dai fallimenti e dai guadagni, esperienze comuni a molte e a molti, che Laura Boella, docente di Filosofia morale all’Università degli Studi di Milano e studiosa della maggiori pensatrici del Novecento, da Hannah Arendt a Edith Stein, ha cominciato a pensare filosoficamente all’empatia, misteriosa  capacità di “sentire l’altro”, precondizione di ogni legame affettivo e sociale. Ne è nato un libro, “Sentire l’altro”, a cui è seguito recentemente “Neuroetica – La morale prima della morale” (entrambi Raffaello Cortina Editore).
“Scoperta dell’altro: empatia e immaginazione” è il titolo della conferenza che Laura Boella terrà a Sarzana il prossimo sabato 30 agosto (ore 18.30, Chiostro di San Francesco) nell’ambito del Festival della Mente.
L’altro come limite. Come estraneo. Non-io. Qualcuno di cui avere paura, da tollerare e da cui “smarcarsi”. Ma anche oggetto di un bisogno irriducibile e disperato, sempre più difficile da dire. Quasi un tabù. Com’è che oggi ha tanta fortuna l’idea dell’assoluta indipendenza? Perché l’individuo autonomo è diventato la perfezione dell’essere umano?

“Perché abbiamo voluto dimenticare che veniamo al mondo dipendenti, bisognosi e già in relazione” dice Boella. “C’è una relazionalità originaria, quella tra il nostro corpo e quello della madre. Il soggetto non può pensarsi fuori dalla relazione. La nostra unicità e singolarità ne sono segnate, partono da lì. Ma nella cultura occidentale interdipendenza vuole dire fragilità, vulnerabilità”.

Questa idea di individuo assoluto, sciolto dalle relazioni, è diventata il modello anche per le donne. L’attuale crisi dei rapporti forse dipende anche dal fatto che nemmeno loro testimoniano più a favore di un individuo “relazionale”.

“Le donne hanno imitato l’autonomia maschile pensando che fosse la via maestra per la libertà. Il prezzo che hanno pagato è stato molto alto”.

Che cos’è l’empatia? E’ compassione?

“Viene prima, è la precondizione della compassione. Non posso partecipare alla gioia o al dolore di un altro se prima non ho stabilito un contatto con lui. Ci vuole prima questa capacità di sentirlo, di mettersi al suo posto. Di immaginarsi nel luogo dell’altro. Poi semmai nasce la compassione, ma non obbligatoriamente”.

L’empatia è “fredda”, mentre la compassione è “calda”?

“Non direi. Nell’empatia ci sono momenti sia affettivi sia cognitivi. Al principio di tutto c’è l’incontro tra i corpi. Il mio corpo entra in risonanza immediata con quello dell’altro. Ne leggo i segnali, vedo il suo sguardo cupo o gioioso, ed entro istantaneamente in contatto. Quasi un automatismo, che le neuroscienze hanno spiegato con la recente scoperta dei neuroni-specchio”.

Un meccanismo automatico, animale, probabilmente legato alla sopravvivenza.

“Poi però, a partire da questa prima risonanza, la cosa si complica. Per sentire l’altro mi devo spostare nel luogo in cui lui sta, un luogo che non conosco e che mi può essere estraneo. Qui si mette al lavoro l’immaginazione, che è un’attività della mente. Il che però non significa che sia un’attività astratta e freddamente razionale. Anche l’immaginazione è intrisa di emozione, di passione e di desiderio”.

E come si fa a essere sicuri che l’altro che io immagino empaticamente sia davvero l’altro? Che non si tratti solo una mia proiezione, di una mia idea di lui?

“Se empatia è provare ad andare dove l’altro sta, allora devi fare continuamente i conti con l’estraneità di questo luogo. Non puoi mai smettere di renderti conto del fatto che l’altro ha una pelle e uno sguardo diversi dai tuoi”.

Lei auspica che ci si eserciti all’empatia: come? E soprattutto:  perché dovremmo fare questa fatica?

“Perché siamo perennemente in relazione, ed è bene averlo presente. Anche quando stiamo scrivendo una legge, o svolgendo una ricerca, o progettando qualcosa, siamo in relazione con qualcuno. Queste mirabili attività di oggettivazione dello spirito sono intrecciate e segnate dalle relazioni che le hanno nutrite. Gran parte delle nostre azioni sono relazionali, anche quando crediamo di andare autonomamente per la nostra strada. E’ meglio esserne consapevoli. Nell’amore, per esempio. Tendiamo a vedere tutto bianco o nero: stiamo insieme o no, viviamo insieme o ci lasciamo, funziona o è il fallimento, vinciamo o perdiamo. E invece è tra questi estremi che capita tutto, il territorio della relazione è questo, sta in questo mezzo che a noi appare vuoto”.

Riflettendo sull’empatia lei è approdata alle neuroscienze.

“Il tema dell’empatia oggi è studiato anche dal punto di vista neurobiologico. Si parla di una morale prima della morale, delle basi biologiche dei nostri comportamenti verso l’altro. La neuroetica, disciplina nata da poco, si occupa delle implicazioni morali e sociali delle recenti scoperte sul cervello umano. Scoperte che, io credo, dovrebbero entrare a far parte del complesso di  domande che ci poniamo sul “come vivere”. E’ anche una questione di cittadinanza democratica: non si può delegare agli scienziati di professione la soluzione delle ansie e la costruzione delle speranze collegate a queste scoperte. Si deve trovare un linguaggio corrente per parlarne”.

Si pensava che la bioetica potesse contribuire ad aprire la discussione pubblica. E invece in un certo senso l’ha irrigidita. Si è rapidamente istituzionalizzata.

“Sembra che il problema etico si ponga solo quando è questione di vita o di morte: gli embrioni, Eluana… Ma anche le nuove tecniche di neuroimaging sono eticamente rilevanti. Se, per esempio, studiando i meccanismi della decisione vedo che non si tratta di razionalità pura ma di un dosaggio di conscio e inconscio; se mi rendo conto del fatto che per tre quarti è frutto di un meccanismo automatico e involontario, allora il mio concetto di decisione lo devo riconsiderare. Non per rassegnarmi al fatto che non decido nulla. Anzi. Sapere come decido mi serve a farlo con sempre maggiore consapevolezza”.