Browsing Tag

democrazia

Politica Luglio 10, 2015

Renzi al telefono con il generale Adinolfi: “Letta incapace, serve un ragionamento diverso. Berlusconi ci sta”.

Non dimenticherò facilmente il 13 febbraio 2014, giorno della decapitazione del premier Enrico Letta da parte della direzione Pd. In particolare, chissà perché, mi è rimasto impresso il lirico intervento di Anna Paola Concia, che citò addirittura la grande poetessa Emily Dickinson.

Solo qualche giorno prima Enrico Letta era stato in direzione a raccontare i suoi programmi di governo, offrendo in effetti un saggio di notevole debolezza. Ma nessuno avrebbe immaginato che sarebbe stata questione di ore. In verità il neoeletto segretario del Pd Matteo Renzi aveva molta, moltissima fretta di diventare primo ministro: lui ha sempre molta, moltissima fretta per tutto. Eletto segretario a dicembre, a gennaio già manovrava freneticamente per giubilare Letta, “un incapace” da rimuovere grazie a un accordo con Silvio Berlusconi, “sensibile a fare un ragionamento diverso”. Il ragionamento diverso era la premiership Renzi. Delle molte cose antidemocratiche che abbiamo visto e continuiamo a vedere nel nostro Paese, questa mi sembra in assoluto la più antidemocratica. Uno che decide di fare il premier e manovra attivamente per diventarlo senza mai essere passato dal voto. 

Il piano è ben raccontato da una telefonata dell’11 gennaio del 2014 tra Renzi e il generale della Guardia di Finanza Michele Adinolfi, intercettata dalla magistratura nel corso dell’inchiesta relativa alla CPL Concordia. L’intercettazione è diffusa oggi da Il Fatto Quotidiano. Renzi spiaga al generale Adinolfi di voler mandare Enrico Letta alla presidenza della Repubblica per toglierlo dal governo. Giorgio Napolitano è però contrario a questo progetto, perché dovrebbe dimettersi da capo dello Stato nel 2016, e non a inizio 2015 come riteneva di fare. Qui i passaggi salienti della telefonata.

Renzi: E sai, a questo punto, c’è prima l’Italia, non c’è niente da fare. Mettersi a discutere per buttare all’aria tutto, secondo me alla lunga sarebbe meglio per il Paese perché lui è proprio incapace, il nostro amico. Però…
Adinolfi: È niente, Matteo, non c’è niente, dai, siamo onesti.
Renzi: Lui non è capace, non è cattivo, non è proprio capace.E quindi… però l’alternativa è governarlo da fuori…
Adinolfi: Secondo me il taglio del Presidente della Repubblica
Renzi : Lui sarebbe perfetto, gliel’ho anche detto ieri.
Adinolfi: E allora?
Renzi: L’unico problema è che … bisogna aspettare agosto del 2016. Quell’altro non c’arriva, capito? Me l’ha già detto
Renzi: E poi il numero uno anche se mollasse… poi il numero uno ce l’ha a morte con Berlusconi per cui… e Berlusconi invece sarebbe più sensibile a fare un ragionamento diverso. Vediamo via, mi sembra complicata la vicenda.
Adinolfi : Matteo, intanto t’ho mandato una bellissima cravatta.
Renzi : Grazie.
Adinolfi: Sì sì, certo certo.
Renzi: Quell’altro 2015 vuole andar via e … Michele mi sa che bisogna fare quelli che… che la prendono nel culo personalmente… poi vediamo magari mettiamo qualcuno di questi ragazzi dentro nella squadra… a sminestrare un po’ di roba.

A fine telefonata Renzi anticipa come Berlusconi sia disponibile a fare un “ragionamento diverso”. Il patto del Nazareno verrà siglato pochi giorni dopo questa telefonata, accelerando la caduta di Enrico Letta.

Ma la vera notizia è un’altra. E cioè -mi sbaglio?- che anche di fronte a queste rivelazioni, probabilmente grande parte del Paese continuerà a fare spallucce e a ritenere sacrosanto o quanto meno accettabile che “per il bene dell’Italia” uno di fatto si autonomini Presidente del Consiglio dei Ministri, levando di mezzo “un incapace”, e perfezionando il tris dei governi non eletti (nemmeno Monti e Letta lo erano) con una manovra di spregiudicatezza superiore. Il quarto, se ce ne sarà uno, volendo potrebbe essere anche più spregiudicato. E forse solo allora potremo comprendere fino in fondo, se ancora non l’abbiamo capito, qual è il prezzo che si paga rinunciando all’esercizio delle prerogative democratiche.

 

Donne e Uomini, Politica Settembre 10, 2013

Rodotà, Civati, le donne: dal dire al fare

Annarosa Buttarelli, autrice di “Sovrane, e Stefano Rodotà al Festivaletteratura di Mantova (tra loro, io)

Sabato al Festivaletteratura di Mantova, davanti a una platea affollatissima, ho avuto il piacere di presentare “Sovrane”, ultimo libro della filosofa Annarosa Buttarelli (ne parleremo qui diffusamente e presto). Insieme a me, a commentare le tesi esposte nel saggio, Stefano Rodotà. In platea, ad ascoltare, Pippo Civati. Due protagonisti della politica italiana (maschile), e non per caso proprio loro due: l’uno candidato pochi mesi fa alla presidenza della Repubblica (e ancora acclamato come presidente in pectore), l’altro attualmente candidato alla segreteria del Pd, entrambi ad ascoltare -finalmente- quello che aveva da dire su questioni come sovranità, democrazia, rappresentanza una donna impegnata da molti anni nella politica della differenza

Il libro di Buttarelli è un testo di intenso amore per il mondo, e quindi un libro squisitamente politico -perché la politica è amore per il mondo, è districare le nostre vite dal potere. E di grande fiducia in una conversione trasformatrice, in un ricominciamento politico a partire dal due che siamo, donne e uomini. Non aver tenuto conto di questo due e della differenza femminile secondo Annarosa Buttarelli è all’origine di ogni altra ingiustizia, che non può essere sanata se non in questa prospettiva. E’ vano sperare in un mondo più giusto e meno infelice senza pensare a un’idea di sovranità diversa da quella che orienta la democrazia rappresentativa, ovvero senza tenere conto delle donne, del loro pensiero, e della fonte della loro autorità. A questo pensiero, all’idea dell’esercizio di un’autorità che non coincida con l’esercizio del potere, di un dispositivo di regolazione della convivenza umana che non abbia a che vedere con la brutalità del dominio e dei rapporti di forza, il mondo della politica maschile resta ostinatamente sordo. Ed ecco invece alcune eccezioni a questa sordità.

L’attenzione pubblica di Rodotà alle tesi di Buttarelli ha avuto un forte impatto simbolico: si è trattato di un alto riconoscimento e di un omaggio -del tutto opportuni- al pensiero politico di una donna radicata nella differenza femminile. Rodotà ha riconosciuto la “debolezza dell’idea di sovranità”, si è detto “in debito” con la sapienza delle donne, ha affermato di avere “imparato molto”, ha parlato di “fondazione di un pensiero”, ha ammesso la necessità del “primum vivere”. Anche da Civati, frequentatore più assiduo del pensiero della differenza, parole di grande apprezzamento.

Si tratta però ora che questo pensiero venga metabolizzato e diventi finalmente carne viva della politica di questi uomini, che ne cambi geneticamente il linguaggio, che se ne faccia un’esperienza autenticamente trasformativa da cui siano impossibili inerziali ritorni indietro. Si tratta che questi uomini che sanno ascoltare sappiano anche assumere fino in fondo un pensiero realmente in grado di infrangere i codici di una politica sterile, scadente e senza prospettive.

Si tratta di essere pronti a un salto quantico. A un salto di civiltà. Niente meno di questo.

Stiamo a vedere.

 

 

Donne e Uomini, esperienze, Politica Febbraio 10, 2012

Polis femminile: primo anniversario

Mentre continuiamo a discutere del governo Monti e dell’asse Roma-Washington -oggi mi sento più yankee che mai- vorrei dire qualcosa della politica delle donne.

Io credo che le vere novità -la fase 2, dopo quella della rimessa-in-pari- verranno di lì, da un’intensa partecipazione femminile, da un profondo mutamento di linguaggi e forme, dall’irruzione della politica prima (quella che le donne fanno da sempre, e che ricondurrei al concetto di cura) nella politica seconda, quella della rappresentanza e della delega. Da una nuova e inedita agenda, che pian piano si va costruendo, che riporti in primo piano ciò che è davvero primario nella vita di tutti, donne e uomini.

Questa novità di forme e di linguaggi è visibile in embrione nel percorso di “Se non ora quando”, a quasi un anno dal 13 febbraio.

Si vanno cercando modalità organizzative, assumendo -mi pare- quella fatica, quel disagio della democrazia (una testa=un voto) di cui parlavamo qui qualche post fa   http://blog.leiweb.it/marinaterragni/2012/02/01/le-donne-e-il-disagio-della-democrazia/

Niente è scontato. Ci si assume anche qualche rischio. Come quello della trasversalità. E quello della non-delega (userei un’altra parola, ma non mi azzardo). Diciamo di una lingua materna.

Ecco un documento del comitato nazionale Snoq, che si ribadisce non-elettivo. Diciamo così, primum inter pares. E invita invece i comitati territoriali alla massima apertura.

Per chi fosse interessata al tema, ci sono spunti su cui ragionare e discutere.

(ne approfitto per dire che causa maltempo la due giorni organizzata da Snoq Bologna su lavoro è welfare dovrebbe essere spostata al 3-4 marzo)

 

“… in merito alla differenza tra il Comitato Promotore e i Comitati Territoriali.

Sì, noi crediamo che il Comitato Promotore sia diverso dai Comitati Territoriali.

Lo è di fatto, se non altro per la sua storia. Non riconoscerne il ruolo di promozione e di indirizzo sarebbe sbagliato, perché porterebbe alla dissoluzione del movimento.

Il Comitato Promotore ha saputo, il 13 febbraio, parlare a tutte e a tutti. Ha avuto come primo riferimento le singole donne, senza usare bandiere. Ha pensato e scritto la “carta d’identità” come base per la riunione di Siena. Tutte ne hanno preso atto senza obiezioni. Comitati Se Non Ora Quando si sono moltiplicati in tutta Italia. Ne sentiamo la responsabilità.

Continuiamo a lavorare attraverso il web e a tenere i contatti con tutte, incoraggiando piena libertà di espressione nei Comitati locali, chiedendo solo il rispetto della trasversalità e l’attenzione alle donne singole che vogliono partecipare a Se Non Ora Quando.

Chiediamo anche a Snoq Milano questa apertura e attenzione.

Ad un anno dal 13 febbraio, forti del lavoro fatto e delle relazioni costruite con i Comitati Territoriali, stiamo elaborando un documento politico sulla forma organizzativa di Se Non Ora Quando. Lo discuteremo tutte insieme al prossimo incontro.

Il Comitato Promotore

Donne e Uomini, Politica, TEMPI MODERNI Febbraio 1, 2012

Le donne e il disagio della democrazia

Leggo sulla pagina Facebook di Se non ora quando Milano il seguente post a firma Cristina Pecchioli:“Sarebbe bene che gente come la Tinagli eviti di usare se non ora quando per veicolare i suoi “pareri”. Io non li condivido. Allora faccia meno la furba!”.

Tinagli (Irene) è stracurriculata, docente all’Università Carlos III di Madrid, esperta di innovazione, creatività e sviluppo economico, consulente del Dipartimento Affari Economici e Sociali dell’ONU, della Commissione Europea e di numerosi governi regionali, enti e aziende in Italia e all’estero, ma essendo che il suo parere non piace a Cristina Pecchioli, si deve ammutolire. 

Il succoso curriculum non esclude che Tinagli abbia detto una grandiosa cretinata (non si capisce a quale “parere” Pecchioli si riferisca, e quindi non si può valutare).

Ma qui il tema è un altro. Ovvero che una è titolata a esprimere solo pareri conformi al parere maggioritario di un gruppo, Se non ora quando, che per assunto condiviso dovrebbe essere aperto a tutti i contributi e politicamente trasversale. A quanto pare invece a Milano, dove il gruppo è blindatissimo e monocolore di sinistra, è all’opera una “commissione pareri” che deve decidere se il tuo parere può essere espresso oppure no, secondo i più squisiti modi dei soviet. 

Una mostruosità, insomma. Una posizione grottesca che esprime quello che chiamerei “disagio della democrazia”, questione invece serissima e di grande rilevanza fra le donne.

Per disagio della democrazia, intendo questo: la fatica che le donne fanno con un dispositivo, quello democratico, che si sono trovate bell’e fatto, che non hanno contribuito a congegnare e che per alcuni millenni non ha tenuto conto di loro. La democrazia è nata proprio così, tenendole fuori. Quando cercano la loro strada nello spazio pubblico, non è strano che facciano fatica con dispositivi come la delega e la rappresentanza, e si ritrovino a sperimentare dell’altro.

La cosa molto interessante è per esempio che in Snoq si discuta di rappresentanza “fuori” (il 50/50, la partecipazione paritaria alle istituzioni rappresentative maschili) ma si faccia una certa fatica a discuterne “dentro”. Come se quel dispositivo venisse ancora buono nelle situazioni miste, ma tra donne l’idea e l’utilità della rappresentanza si indebolissero.

La grande parte delle donne che ama la politica ha ancora molta paura di ammettere questa fatica della democrazia, anche se poi nei fatti, come si vede, le pratiche sono rivelatrici.

Simone Weil non si fece problemi a dirlo: “Tutto spinge al limite della democrazia”.

Forse questo imbarazzo con i dispositivi democratici va interrogato. Lì è in corso, forse non del tutto consapevolmente, un vero e proprio laboratorio politico. Women at work per inventare la loro polis.

(anche di questo ragiono nel mio prossimo libro, in uscita il 7 marzo per Rizzoli, titolo: “Un gioco da ragazze- Come le donne rifaranno l’Italia”: si fa tanto fatica a scriverli, un po’ di pubblicità).

 

esperienze, leadershit, Politica Novembre 12, 2011

Chi fa da sé

Non è strano che un premier tecnico voglia scegliere da sé la sua squadra, senza tenere conto più di tanto delle indicazioni dei partiti, in particolare se si considerano i partiti come istituzioni scadenti e inefficaci, e le cose che sono capitate –e non capitate- in questo paese a opera dei partiti autorizzano il giudizio negativo. Ma il fai-da-te è sempre più praticato anche in condizioni di “normalità” politica, e non si limita alle squadre tecniche. Per esempio molti sindaci si fanno vanto di tenersi le mani libere, riducendo al minimo contrattazioni e mediazioni con i partiti. Anzi, questo fai-da-te diventa un elemento distintivo e appealing per i cittadini, sempre più attratti dall’antipolitica.

A me pare questo: che se per l’emergenza, in via eccezionale, per un governo con un’agenda ben definita e a tempo –quanto tempo? quando si andrà al voto? -questo fai-da-te può essere accettato, l’idea del buon padre di famiglia che occupa ordinariamente il posto della politica e dei partiti, decidendo tutto da sé o con i suoi famigli stretti, non è affatto rassicurante, è regressiva, è pericolosa. 

I partiti sono quello che sono: malconci, inadeguati, spesso corrotti. Ma se la scelta è tra i partiti e il leader unico, mi terrei i partiti, grazie. Almeno finché non ci saremo inventati qualcosa di meglio per rappresentare gli auspici collettivi. Se i partiti sono da rottamare, l’idea del leader lo è anche di più.

L’uomo solo al comando può essere anche un grand’uomo, un’ottima persona, ma quell’ingorgo di potere costituisce sempre un pericolo, blocca le energie e il cambiamento, infantilizza e deresponsabilizza i cittadini. Una situazione che può essere riservata all’emergenza. Purché l’emergenza non duri un minuto di più di quel che deve durare.   

 

Politica Marzo 4, 2010

IL FASCINO DISCRETO DELLE REGOLE

Codici-e-Leggi

Dal sito Donneealtri, riproduco questo bell’articolo di Letizia Paolozzi.

D’improvviso, in questo nostro strano Paese, esplode la questione delle regole. Anzi, della conformità alle regole. Una conformità assente. Poco amata, poco praticata. Pur se durissimi con il Sessantotto, molti italiani e italiane sono cresciuti da sessantottini disordinati e bakuniani che le regole se le sentono come un cappio al collo. Sempre dalla parte del padrone. E noi “sior padrone, non vogliamo più obbedir“.
C’è da dire che le regole, perlomeno in questo Paese, spesso sembrano pazzesche. Antiquate, sbagliate. Tuttavia, chi meno conta e meno può, deve comunque rivolgersi alle regole perché gli serve essere difeso dallo Stato. Che poi le regole siano bislacche dipende dalla politica occuparsene. E cambiarle. Se non le cambia, significa che gli stanno bene così come sono congegnate. E allora, la politica, i partiti, i cittadini, le cittadine devono osservarle.
Invece no. Chi può, sempre che possa (perché spesso è troppo povero e indifeso per potere), alza le spalle. Le aggira. Solo i Radicali ci si sono messi d’impegno. Tignosamente. Fino all’eccesso. Giù con gli scioperi della fame e della sete. Ci hanno scritto sopra un libro parlando di “peste dell’illegalità italiana”.
Sembravano esagerati. Anche perché ogni regola contiene, sempre, nel suo seno, delle insensatezze. Chi l’ha detto che alle dodici spaccate si chiudono le porte e chi s’è visto s’è visto? Chi l’ha voluto il timbro mancante come una sorta di reato formale, la carta da bollo come una prova a carico? Ma senza queste norme, pur di difficile lettura e comprensione, non c’è trasparenza. Non c’è giustizia.

Nel Lazio il Pdl ha presentato le proprie liste oltre i termini stabiliti dalla legge. Forse il guasto è dipeso dalla voglia di cambiare all’ultimo momento i nomi delle liste in corridoio, in piedi, su una gamba sola. D’altronde, così fan tutti. Comunque, è esploso un gran pasticcio. E pasticci da altre parti. Perché i partiti piccoli non arrivano a raccogliere le firme nel tempo giusto; perché non ci sono i pubblici ufficiali che si prestino alla bisogna dell’autenticazione; perché i partiti grossi suppongono, nella loro arroganza, di potersi permettere molto (o tutto). E sono i più tartassati dalle pretese fameliche degli aspiranti a un posto politico purchessia.
Adesso, nel guazzabuglio romano-laziale si invoca “clemenza“ (traduci illegalità) da parte dei giudici. La candidata a presidente del centrodestra brontola che la legalità è burocrazia. Vero. Ma anche senza aver letto Carl Schmitt si capisce che burocrazia fa rima con democrazia. Per essere curato, per avere la pensione, lasciare la casa al proprio compagno di una vita, avere diritto alle ferie, ci vuole un mix di burocrazia e democrazia. In caso contrario Vogliamo tutto si traduce in Non avrete niente.

Ora il filo si è rotto, il fatalismo sembra retrocedere. Non saprei dire per quali motivazioni (troppi scandali, immobilismo, tracotanza, crisi, preoccupazioni economiche, perdita di valori, di autorità?), ma l’invocazione solitaria dei Radicali è stata ascoltata. Quasi che il disprezzo delle regole non sia più sopportabile. Nessuno vuole più chiudere un occhio, riaprire una porta. Altro che “cavilli“, queste sono procedure non rispettate. I giudici corrono a verificare la congruità delle liste; le Corti d’Appello di mezza Italia intensificano il proprio dovere (di controllo) e il controllo di legalità viene rivendicato a voce alta.
Adesso, tutti dicono che il difetto è nel manico. I topi si infilano nel formaggio. E le regole sballate sono un formaggio delizioso al quale è difficile per i topi, resistere. Emma Bonino di questa battaglia fondata sul rispetto delle regole è stata paladina. Non è l’unica cosa da chiedere a Bonino, evidentemente. Bisognerà che ci spieghi se la questione (e il gusto) di vivere insieme si appoggia – anche – sulle regole. La presenza nel suo listino di Bia Sarasini, una femminista che lavora con noi a questo sito (e nel nostro gruppo “del mercoledì”), potrebbe essere l’occasione per costruire qualche risposta.

Politica Giugno 11, 2009

QUI AD ATENE NOI FACCIAMO COSI'

Mauro ci ricorda in un commento il discorso di Pericle agli Ateniesi (461 a.C.).

E allora eccolo, recitato da Paolo Rossi. Scopo di Pericle non era certo commuovere. Eppure oggi il suo discorso suona molto commovente.

AMARE GLI ALTRI, Donne e Uomini, Politica Giugno 10, 2009

ANZI, SAPETE CHE C'E'?

Mary-Lou Bagley, Step into Kairόs

Mary-Lou Bagley, Step into Kairόs

Anzi, sapete che c’è? Per rispondere alle domande del nostro amico Francesco, frequentatore del blog, ci ho messo un po’ di tempo e molte buone energie mattutine. Pertanto trasporto qui in primo piano quello che gli ho scritto , perché si veda meglio, in una logica antispreco, così ne parliamo meglio.

Mi chiedeva Francesco:

che cos’è la politica?
diciamo che oggi la politica chiede meno rappresentanza e più relazione, e chiede che si tenga conto che la polis è bisessuata (le donne non sono più estromesse, appena da un pugno di anni). Per questo penso che le più grosse novità possano venire dalle soggette e dal modo in cui loro pensano la polis. Una polis anche femminile nessuna sa bene che cosa sia, ma è già politica il fatto di cercarla costantemente, e da parte degli uomini di favorire questa ricerca, ascoltando con attenzione le donne così come le donne devono ascoltare loro stesse. Per la felicità di tutti, donne e uomini.

– quali la sua funzione e i suoi ambiti?
La funzione della politica è la minimizzazione delle infelicità per il maggior numero dei viventi, donne, uomini, animali e piante, e quindi l’organizzazione della convivenza con questo obiettivo.

– la politica necessariamente rappresenta interessi?
Immagino di sì, ma la lotta grande da fare è districare l’idea di interesse da quella di denaro. L’interesse umano è il guadagno, ogni vivente vuole guadagnare, cerca un plus, ma il denaro è solo uno dei mezzi. Solo denaro o troppo denaro allontana dall’obiettivo della minore infelicità possibile. Occorre testimoniare questo, continuamente.

– caratteristiche essenziali del politico?

Il fervido desiderio degli altri, dall’altro più vicino a quello più lontano. La pratica instancabile della relazione e della mediazione. La fiducia profonda che senza l’altro nemmeno si è. La testimonianza di un interesse solo relativo per il possesso di cose. Il volere bene.

– metodo selettivo affinchè solo i migliori arrivino a tale ruolo?

nella chiave che io dico chiunque può essere politico. Se si ammette che il sistema della rappresentanza è difettoso e chiede di essere ripensato, convertito in un modello postdemocratico che si fonda sulla cittadinanza bisessuata, la questione della selezione si pone diversamente. Non c’è alcuna speranza fondata che i partiti scelgano i migliori. I partiti sono macchine destinate a spendere il 99.9 per cento delle loro risorse ed energie all’autoalimentazione e all’autoriproduzione, e solo il residuale 0,1 per cento alla politica. Non c’è scampo. Un’autoriforma non è immaginabile. Ogni eccezione è del tutto occasionale. Ma queste proporzioni (99,9 e 0,1) non possono essere mantenute ancora a lungo. Le cose sono andate così nei secoli, si dirà, anche se oggi sembra un po’ peggio (e non è così, c’è e c’è stato molto peggio di questo peggio). Perché a questo punto dovrebbero cambiare? Perché oggi entra in campo la variabile femminile, necessariamente rivoluzionaria, nel senso in cui sono state rivoluzionarie le donne nell’ultimo secolo (senza palazzi d’inverno e spargimenti di sangue, intendo). E la faccenda, come si sa, riguarda le donne e gli uomini. Questa variabile tocca le fondamenta della democrazia, che è nata come conventio ad excludendum, tra uomini tenendo fuori dalla polis le donne. Ma probabilmente la rivoluzione della democrazia non avverrà nella politica, negli ambiti di quella che oggi chiamiamo la politica (i partiti, e così via) ma per esempio nel mondo del lavoro. E lì, che la nuova polis bisessuata prenderà forma. E’ lì che si formeranno e si cominceranno a praticare i modelli.

Aggiungo questo: che molti, magari concordando con le cose che io dico, potrebbero opporre che per tutto questo servirà un tempo infinito. Il che, ad un tempo, è vero e non è vero. E’ vero in una logica di tempo lineare e quantitativo, che non si fa mai raggiungere, alla cui coda cerchiamo di aggrapparci senza mai riuscire a prenderla, come in quelle giostre dei bambini (krόnos). Non è vero in una logica di kairόs, di momento opportuno e tempo qualitativo (per i Greci era il “tempo di Dio”), un tempo in cui qualcosa di speciale può capitare, e all’improvviso. Un tempo che non ha bisogno della mediazione del tempo, che può essere qui e ora, in ogni momento, subito. Proprio quando il tempo lineare sembra non procedere, frenando il cambiamento, si apre uno spazio propizio per il tempo qualitativo, che si fa largo tra le maglie del presente. Che dà corpo, in squarci subitanei e rivelatori, al mondo che vorremmo che fosse. E anche alla politica, come stiamo cercando di pensarla. E’ anzitutto dentro di noi, che questi due tempi sono in lotta.

Donne e Uomini, Politica Maggio 14, 2009

CAMBIARE STRADA

In questo blog e anche nella vita mi arrabbio spesso con l’antiberlusconismo ossessivo. Perché mi è sempre apparso, fin dal principio, una sorta di contro-culto della personalità che non avrebbe affatto giovato all’opposizione, e anzi ci avrebbe condotto a un berluscocentrismo tale che oggi i più giovani non riescono più neppure a immaginare la politica italiana senza Berlusconi, né a concepire la dialettica democratica come fondamentale per la democrazia. Non ci sono più un governo e un’opposizione, c’è Berlusconi che “vuole lavorare”, e un manipolo di rompicoglioni che gli mette i bastoni tra le ruote. Le cose vengono lette in questo modo.

Il problema, per me, non è la legittimità di questa che io definisco un’ossessione, ma la sua efficacia politica. E mi pare di poter dire, vista la situazione, che la cosa non ha funzionato affatto, e non funzionerà. Si tratta perciò di cambiare sguardo e strategia. E’ in questo che invito me stessa e tutti a esercitarci.

Per quello che mi riguarda, traggo spunti e forza dalla politica delle donne: che, detto in sintesi e malamente, hanno sempre dovuto fare con quel poco o niente che avevano, dando valore a questo poco, e non avendo in apparenza nessuna possibilità politica, essendo state da sempre tenute fuori dalla polis e schiacciate sotto il tallone dagli uomini. Eppure hanno fatto, hanno guadagnato libertà, la polis sono riuscite a cambiarla in modo formidabile, la politica l’hanno fatta lo stesso, creando occasioni per sé stesse e per tutti.

Ecco: chi oggi non si riconosce in questa maggioranza politica, nel modo in cui opera e legifera -per esempio, nelle gravi decisioni di queste ore sulla questione dei migranti- sembra avere poche possibilità “politiche” di esprimere il proprio punto di vista e di influenzare queste decisioni. Come le donne, deve cavarsela con quel poco, pochissimo, con quel nulla che ha. Dalla politica delle donne, che sono state maestre in questo, e dalle sue pratiche ha da imparare.

La prima cosa da imparare, a me pare, e di qui convincersi, è che le possibilità ci sono anche quando l’orizzonte appare chiuso, e che queste possibilità le abbiamo vicine, a portata di mano, nei nostri gesti quotidiani, nel qui e ora della nostra vita di ogni giorno, nella disubbidienza del cuore a quello che non sentiamo giusto, nella libertà di essere da subito quel mondo in cui vorremmo vivere.

Se qualcuno ha idee migliori, che le dica.

Donne e Uomini, OSPITI, Politica Aprile 2, 2009

IL CORAGGIO DI FINIRE

Per circa un anno, a Roma, un gruppo di signore (Fulvia Bandoli, Maria Luisa Boccia, Elettra Deiana, Laura Gallucci, Letizia Paolozzi, Isabella Peretti, Bianca Pomeranzi, Bia Sarasini, Rosetta Stella, Stefania Vulterini) si sono viste ogni mercoledì per ragionare sulla crisi della sinistra. Si sono date il tempo per pensarci a fondo, prendendosi la briga di fare questo lavoro per tutte-tutti. Grazie.

Il 19 aprile, alla Casa Internazionale delle Donne, metteranno in comune le loro riflessioni. Ve ne anticipiamo alcuni stralci (il testo integrale lo trovate qui: http://www.donnealtri.it/locale-globale/373-il-coraggio-di-finire-br-riattraversare-la-fine-pu–rivelarsi-un-educazione-sentimentale.html)

Abbiamo cominciato a riunirci prima della caduta del governo Prodi, quando non era ancora del tutto implosa la politica dei partiti della sinistra. Avvertivamo tutte, al di là delle diverse esperienze e del diverso coinvolgimento in quella vicenda, il bisogno di uno scambio su quello che da tempo ci sembrava evidente: una perdita di senso e di funzione della sinistra, all’interno di una più generale crisi della politica. Una perdita forse irrimediabile. Che si manifestava nella ripetizione di tutti i vizi che l’hanno portata allo schianto elettorale, dalle pratiche asfittiche ed autoreferenziali, all’abuso di parole troppo lise per comunicare e convincere . A questa situazione abbiamo guardato con “attenzione amorevole” (…)

Siamo ri-partite da quello che stava accadendo ad alcune di noi: l’ invecchiamento, le malattie, la fine di persone care. Abbiamo tutte esperienza del peso e della sofferenza che può suscitare la fine della vita. E abbiamo bisogno di dare parola a questa esperienza. A cosa accade ai corpi nel morire… anche se la fine non può essere buona, bisogna assumerla comunque. E’ un modo di riconoscere la finitezza, il limite, l’usura del corpo. Restano – non è una consolazione, ma un’eredità – le relazioni. La politica delle donne di questo parla. E’ questo il filo di continuità tra il nostro gruppo e il femminismo. E’ sulla possibilità di mettere le relazioni al centro della politica che vogliamo lavorare, creare incontri e scambi con uomini e donne (…)

Questo ha suscitato in noi un coinvolgimento vivo sulla questione politica della fine della vita. Da mesi presente nelle cronache di giornali e istituzioni sul cosidetto “caso Englaro”. Che abbiamo però sottratto alla complicata e astratta discussione bioetica, su legge o no, su chi decide, su cos’è accanimento terapeutico, cosa terapia, cosa vita, quando si è morti o no, ecc, ecc. La legge ci sembra un modo solo per coprire un vuoto di senso, e, al contempo, esorcizzare la paura della morte (…)

E’ sempre più difficile saper convivere con la morte. E saper quindi compiere quel mutamento esistenziale che ogni fine, a noi vicina, comporta. E sempre meno accettiamo di fare esperienza del lutto, della necessità di prendere congedo. Di attraversare il dolore che ogni cesura, tanto più se inevitabile, comporta. La morte da esperienza individuale si trasforma così in un rimosso della coscienza collettiva. Lavorare su quel rimosso è una parte essenziale della politica, perché è essenziale per la convivenza (…)

Dal bisogno di nominare la fine dei corpi, abbiamo preso consapevolezza del bisogno, altrettanto forte, di nominare la fine nella politica. Il rinvio dal corpo alla politica, dal fine vita alla fine di forme della politica è stato repentino. Ci ha fatto capire perché giravamo a vuoto, senza afferrare il nesso tra la nostra esperienza viva di politica ed il discorso politico e sulla politica. Perché anche noi restavamo incagliate nel “discorso ” pre-costituito che è quello pubblico, dei giornali e delle sedi politiche. Un effluvio di parole che assorda senza riempire il vuoto di senso. Proprio come nel discorso della bioetica, attorno al corpo di Eluana.

La crisi della politica mima le crisi del corpo fisico. Conosce l’alternarsi di bulimia e anoressia: eccesso di parole, di concetti, di invenzioni verbali e disseccamento delle radici sociali, delle pratiche comunicative, degli scambi di senso e di riconoscimento. Cupio dissolvi e vocazione suicidaria nella riproposizione all’infinito dei modi e delle logiche che hanno portato al disastro. Accanimento terapeutico diretto a rinverdire simboli e riferimenti ormai in declino, che hanno dato un giorno forza all’impresa e che si spera possano tornare a essere quello che sono stati. Nel femminismo abbiamo tempestivamente visto e nominato i danni del prometeismo. Di quel peculiare accanimento maschile che li spinge a tenere in vita vegetativa imprese collettive. Le istituzioni, le prassi, i codici di una politica non più viva, non più feconda. Perché non nutre le esperienze, non le cambia, non offre significato.

Gli uomini fanno fatica a prendere le distanze dalle organizzazioni – partiti, gruppi, associazioni- che hanno costruito. Non riescono a separarsene. L’ansia per il declino di un partito si traduce nell’invocare un leader, così come la leadership dovrebbe supplire alla crisi dell’ autorità patriarcale. Nella realtà i gruppi dirigenti maschili, a sinistra soprattutto, non solo non hanno autorità, ma sono un ostacolo per affrontarla: occupano quella funzione, ma non la incarnano. Nell’infinita transizione italiana è tutto un fare e disfare partiti, coalizioni, sistemi elettorali. Un chiudere ed aprire fasi e cicli senza mai fermarsi a prendere atto di ciò che è davvero finito, morto, dentro questo inesausto adoperarsi per dar vita al nuovo. Ed è malamente morto, senza ottenere degna sepoltura, anche a causa di questo accanimento (…)

Si può accettare il vuoto e l’impotenza. Fa soffrire. Ma questo può essere, una condizione attiva, non solo passiva. Patire è radice di passione. Attiva desiderio. Muove dall’impotenza che avvertiamo verso… un bisogno di dare senso a quel patire, prima ancora che verso qualcosa che lo risolve. Ma non bisogna avere fretta di colmare il vuoto, di azzerare la sofferenza con la rimozione. Ignorare la fine ci fa perdere l’opportunità di portare con noi ciò che è importante di questa fine e che probabilmente ci sarebbe utile per ricominciare.

Democrazia è una parola a rischio. Per la sua intrinseca ambivalenza. Come sistema politico ha fatto spazio alle differenze, alla pluralità delle esperienze e dei punti di vista. Come forma del potere politico si è costituita come luogo terzo rispetto alle differenti posizioni, ai partiti, ai conflitti, alle soggettività (…) Anche per i governati, noi singoli e singole, la democrazia è parola ambivalente. A rischio. Per un verso abbiamo potere su noi stessi, è la libertà individuale, garantita come diritti. Per altro verso ognuno deve vedersela da sé, sta per conto suo, ha i fatti suoi. La democrazia insomma, come luogo terzo rende più difficile mettere al centro della politica e della vita le relazioni. Questo produce un ricorso ossessivo alla legge. Ci si appella alla legge per paura delle relazioni, come se la legge potesse colmare il vuoto di legami, l’assenza di una dimensione condivisa nell’ esistenza e nel pensiero.

Vorremmo ripensare la democrazia, non come luogo terzo, non come potere neutro del decisore, ma come convivenza tra differenti, spazio di relazioni e mediazioni, del loro intrecciarsi con l’agire collettivo(…)

Non vi è consapevolezza che anche le istituzioni umane, tutto ciò che è costruito è contingente, finito. La sinistra ha affrontato il suo declino come se fosse, per natura, necessaria, insostituibile. Hanno preso il sopravvento la rimozione e l’ attaccamento. Attaccamento come ripetizione, inconsapevole per lo più, del passato, rappresentazione mitica di ciò che è stato, suo ritorno parodistico, diffuso affidarsi ai meccanismi e ai dispositivi sperimentati. Soprattutto c’è stato un uso del sentimento affettivo diffuso, del senso comune e della tradizione. Rimozione come rito dell’innovazione, ricorso al lifting piuttosto che costruzione di un altro ordine di senso e di esperienza.

Non vediamo modo di ricominciare se non si ha il coraggio di finire. Di nuovo c’è un nesso con la questione del fine vita. Con il modo in cui è stata malamente rappresentata nella vicenda Englaro. In questi anni le donne hanno chiuso diverse esperienze, diversi gruppi, associazioni. Gli uomini invece se chiudono un esperienza, fanno finire un partito o un gruppo e per rifarlo. Magari per moltiplicarlo, dividendosi in due o tre sotto-gruppi. Forse perché il significato della parola “fine” si intreccia troppo con quello di “fallimento”. Forse perché hanno paura di invecchiare – anche noi, ma diversamente da loro – e provano a mantenersi giovani, ripetendo il rito del nuovo inizio. Come nella vita, cambiano partner. Noi vorremo comunicare con loro, su cosa vuol dire avere coraggio di finire. Mantenendo vive, ed allargando, le relazioni che abbiamo.