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Donne e Uomini, esperienze Giugno 5, 2010

UN PO’ DI TEMPO PER ME

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Che cosa vi fa venire in mente l’espressione “un po’ di tempo per me”? A me un massaggio. Non si capisce perché. Io massaggi non ne faccio mai. Detesto avere addosso mani che non conosco. Ma c’è questo stereotipo della donna che trova “un po’ di tempo per sé” e allora beata si concede un massaggio, una seduta dal parrucchiere –noia mortale-, o una di quelle corsette idiote sul tapis rulant. Ma quello non è affatto tempo per me. Piuttosto faccio i vetri. Mentre tiro la carta di giornale e scruto gli aloni in controluce, lo spirito si libera e va dove vuole.
C’è quest’idea che il tempo per te è quello che sottrai agli altri: finalmente per i fatti tuoi, coiffeur a parte. Ritorno a un’omeostatica solitudine. Sarà perché la vita femminile è sempre un crocevia per le vite altrui: dal tuo corpo passa di tutto. E non nego che di tanto in tanto un bel filmetto senza che nessuno ti interrompa per chiederti “dove hai messo le mie mutande?”, un sorso di vino da meditazione in cucina, in pace, mentre i barbari sono allo stadio… be’, ci sta. Ma quelle sono semplici pause. Del “tempo per me” ho un concetto più alto. Il tempo per me è quello in cui ci sono tutta, per quella che sono. Tempo non alienato, marxianamente parlando. Ed è tutto da dimostrare che più stai per i fatti tuoi e meno alienata sei.
Gli altri fanno parte fin dal principio del misterioso ente che chiamiamo “io”. Non è che stanno solo lì fuori –non-io- a disegnarne i confini e a limitarne i movimenti. Ci passano attraverso, sono il nostro scheletro spirituale, senza il quale ci afflosciamo e dissecchiamo come meduse spiaggiate. Alle spalle di ogni individuo c’è una relazione, e il panorama davanti è tale e quale. Il tempo per me, in cui ci sono tutta per quello che sono, è pieno di gente, di pensieri per gli altri.
Il lavoro da fare, allora, non è semplicemente quello di prendersi qualche pausa, che pure può servire. Si tratta piuttosto di fare diventare gran parte della nostra vita tempo per noi, in cui ci siamo tutte e tutti, interi, per quello che siamo. A casa, sul lavoro, in qualunque circostanza. E’ trasformare le nostre vite in tempo da vivere pienamente, e non in apnea, nell’attesa di tempi migliori. Il tempo migliore è adesso.

pubblicato su Io donna-Corriere della Sera il 5 giugno 2010

Archivio Settembre 22, 2008

TI CHIUDO FUORI

Nel paesello dove passo l’estate una volta, mi dicono, di recinzioni non ce n’erano. Un ameno continuum di verde, campi e boschi, senza reti né grate. Forse è stato con l’arrivo di noi orribili “milanesi” che le cose sono cambiate. Muriccioli, siepi, una proprietà separata dall’altra, come sintomi di un diffuso disturbo. Un giorno sto passeggiando con il mio vecchio cane lungo il sentiero che conduce a una torre saracena, che oggi è un’abitazione privata. Una giovane signora, elegante nel suo caftano, si affaccia da un cancello: “Lei dove va?”. “Di là” dico, e indico i campi che si affacciano su una dolce vallata. “Di là non c’è nulla. Solo case private”. “Però non mi risulta” rispondo “che il sentiero sia privato”. La bella signora ci pensa un po’ su. Vuole fermarmi, ma non sa come diavolo fare. “E i sacchettini? Ce li ha i sacchettini?”. Estraggo dalla tasca quattro o cinque contenitori igienici. Il mio vecchio Tom è un ragazzo pulito. La signora è costretta alla resa. Indietreggia, senza più argomenti.
Peccato. Avrebbe potuto regalarmi un bel sorriso, fare due chiacchiere con me, offrirmi un tè o qualcosa del genere. Stare chiusi e da soli, ancorché in un eremo principesco, prati all’inglese, piscina e ogni genere di comfort, non dev’essere poi così divertente. Dopo un po’ che sto chiusa io soffoco. Sento il bisogno di altri esseri viventi e comunicanti.
Sono decisamente in minoranza. I più –almeno all’apparenza-intendono chiudere, recintare, costruirsi il loro microcosmo autarchico, privatizzare sentieri, impedire l’accesso, sottrarsi alla scocciatura dell’interazione e della relazione. Il lavoro da fare, invece, sarebbe un altro. Aprire, spalancare, e darsi da fare per costruire il senso di ciò che è comune. Amarlo tutti insieme, investirlo delle energie di tutti, impregnarlo dei nostri migliori sentimenti, renderlo sacro.
Non per fare Totò: ma ne avremo di tempo per starcene chiusi, soli e “privati”, con quattro mesti fiori secchi a ricordarci, se qualcuno avrà il garbo di portarcene. Il più del tempo è solitudine. La vita è soprattutto gioia e fatica delle relazioni. Ma la sprechiamo a dimostrare in tutti i modi di non averne bisogno. Dire il desiderio dell’altro è diventata la vergogna numero uno.