Quando morì mio padre era un solstizio d’estate. Le sette di sera. Le rondini impazzivano, come fanno ora, nel cielo fuori dalle mie finestre. Le loro grida di felicità roteante. Io le odiavo. Loro erano vive, mio padre si accingeva a diventare un ricordo, le sue dita lunghe ed eleganti erano blu. Loro, le rondini fottute, inutilmente vive, nella loro serialità, una uguale all’altra, un garrito uguale all’altro. Anche le formiche erano vive, quelle emerite cretine, nel mio giardinetto. Mio padre era un pezzo di carne morta, e mio padre mi serviva, invece. Era molto utile alla mia vita, e se n’era andato con un ridicolo singhiozzo mentre io stavo guidando la macchina dalle parti di piazza Aspromonte, a Milano. Era rimasto lì, con gli occhi aperti e la cintura allacciata, di fianco a me. Mio padre. Quell’uomo così mite e comico. Il mio amore dalla bella bocca.

Adesso risento queste pazze delle rondini, e le amo. Mio padre sta roteando con loro in questa bellissima luce, e deve essere per questo che sono così felici, e io con loro. Quello che doveva compiersi si è compiuto.

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