La San Giorgio sarebbe tutt’altro. E’ una nave anfibia che ha una trentina d’anni e ha partecipato a missioni internazionali tra cui quelle in Somalia e in Kosovo. Il comandante Aldo Dolfini me la fa visitare con orgoglio: il ponte-volo con gli elicotteri, l’elevatore, il ponte-garage sotterraneo con i gommoni e la Gis, la chiatta con cui si recuperano i migranti alla deriva. Anche duecento per volta. Poi, una volta a bordo, un primo controllo sanitario: “Gli infettivi” dice “si vedono a vista”. L’ospedale sta lì sotto, i “reparti” divisi da tendoni di plastica. Aleggia ancora l’odore di disinfettante e di umanità stipata e stremata.

La chiamo Love Boat perché qui tutti i ragionamenti politici o ideologici sui flussi migratori, sull’opportunità o meno della Missione Mare Nostrum -che da ottobre, dopo la grande tragedia di Lampedusa, insieme ad altre unità della Marina Militare Italiana pattuglia il tratto di mare tra le coste libiche e quelle siciliane-, tutte le riflessioni sul fatto che la recente abolizione del reato di immigrazione clandestina possa avere incoraggiato la partenza dei barconi, tutto questo perde istantaneamente senso di fronte alla logica essenziale e infallibile dell’amore: ti trovi di fronte un essere umano in difficoltà, un uomo, una donna o un bambino che ha freddo, ha fame e rischia di affogare. E lo salvi. Fai tutto quello puoi per salvarlo, e stop. Ti levi i vestiti di dosso perché i suoi sono zuppi, ti togli il pane di bocca perché lui è affamato. E’ una legge antica, cosmologica. E non può essere violata.

Il comandante fa fatica a raccontare di quel bimbo eritreo che mentre veniva finalmente sbarcato ad Augusta agitava la manina per salutare tutti, con il suo giocattolo nell’altra mano. La commozione gli stringe ancora la gola. La gratitudine ti viene espressa battendo la mano sul cuore, o stringendoti forte la mano. “Non sono capace di raccontare” dice “l’espressione che gli si dipinge sul volto quando abbassiamo la rampa per sbarcarli, e la luce del sole inonda il ponte sotterraneo dove sono stipati. Si illuminano anche loro, perché capiscono che il peggio è passato. Il viaggio non è finito, ma le tappe più terribili sono alle spalle”. Alcuni, mi spiega, in viaggio da anni, sono passati da un mercante di uomini all’altro. La scorsa settimana Mare Nostrum ha portato in salvo 6769 migranti nel giro di tre giorni, gente imbarcata in Libia e in Egitto. Le buone condizioni del mare hanno favorito le partenze.

Mi affaccio da “poppetta”, dove vanno i marinai a fumarsi una sigaretta. Stiamo navigando nella zona di pattugliamento, 70 miglia a sud di Lampedusa e 90 miglia a nord delle coste libiche. Un branco di delfini affianca la nave e si esibisce nei suoi balzi festosi. Il mare è un po’ mosso, forza 2, e tira vento. Ci vorrà almeno un paio di giorni perché il tempo possa rimettersi al bello: difficile che prima di allora salpino altri barconi. Ma mai dire mai. L’equipe medica si allena nell’oscurità del ponte-garage –non so come facciano, con l’odore che c’è lì sotto… -: corsa, aerobica, addominali e stretching per tenersi in forma. Una nuova emergenza potrebbe capitare da un momento all’altro, e allora non ci sarà più giorno né notte, finché la situazione non sarà sotto controllo.

Partono in qualunque condizione: una donna è stata recuperata al nono mese di gravidanza, per fortuna tutto bene. Partono anche se non sanno nuotare: solo i siriani talvolta hanno il salvagente, tutti gli altri no. I l prezzo che pagano ai loro sfruttatori e agli scafisti, 3-5 mila euro o anche di più, non comprende questa dotazione.

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