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femminicidio

Donne e Uomini, femminicidio, Femminismo, questione maschile Settembre 9, 2014

Vorrei un 13 febbraio contro i maschi malati di Isis. Ma il femminismo tace

Forse mi è sfuggito qualcosa, ma non ho sentito voci eminenti del femminismo italiano levarsi con decisione contro gli orrori perpetrati dai criminali di Isis. C’è uno specifico sessista di questi orrori: quei criminali sono tutti uomini (salvo le poche vestali autosessiste patologiche arruolate nella Brigata al Khansaa per vessare le proprie simili), e le donne vengono trattate come prede, stuprate, uccise, vendute come schiave.

In una bellissima riflessione pubblicata sul New York Times il filosofo e psicoanalista sloveno Slavoj Zizek, menzionando le “orge grottesche” delle gang di Isis “a base di rapine, stupri di gruppo, tortura e uccisione degli infedeli“, parla di un “fanatismo razzista, religioso e sessista“.

Il sessismo è una componente decisiva di di questo pseudo-fondamentalismo (i veri fondamentalisti, come chiarisce Zizek, dai buddisti agli Amish, non sono violenti né risentiti). Abbiamo letto le strazianti storie di donne yazide suicide dopo essere state violentate. Il corpo della donna è ad un tempo territorio e oggetto simbolico della contesa (l’oggetto reale è sempre e solo uno: i soldi, merce delle merci). La libertà femminile è tra i principali  fattori in campo.

Eppure si esita: alle immagini delle schiave del sesso vendute al mercato di Mossul si oppone scetticismo, si parla di bufale. Sempre pronte a enumerare e stigmatizzare gli errori della politica estera americana in quei territori -errori certi, ammessi anche da Hillary Clinton-, si resta mute di fronte alla catastrofe umanitaria, al genocidio e al “generocidio”. Un malinteso multiculturalismo che ammette perfino il rispetto del jihad e della sharia, come se si trattasse di ordinari usi e costumi locali.

Propense a dare ragione alle intellettuali dell’Islam che indicano aggressivamente i problemi di noi donne occidentali, tipo “la dittatura della taglia 42” (Fatema Mernissi), non ci permettiamo mai di opporre il fatto che, pur con i problemi che sappiamo, tutto sommato dalle nostre parti la vita delle donne è molto meno dura. La cosa ha una sua oggettività: perché non possiamo dirla? Non intendiamo in alcun modo difendere il nostro mondo: anzi, rifiutiamo di parlare di “nostro” e di “loro” mondo, e in ciò c’è senz’altro del buono. Ma in questa sororità che rifiuta la logica maschile del conflitto si radicano un’ignavia di cui ci potremmo pentire amaramente -vedi foto sopra, leggi Marjane Satrapi-, l’incapacità di leggere quello che sta capitando e di reagire opportunamente, la nostra paradossale indifferenza verso la condizione tragica di quelle sorelle.

Io spero ardentemente che i criminali di Isis, mossi, come dice Zizek, dall’invidia “verso lo stile di vita dei non credenti”, “profondamente infastiditi, incuriositi ed affascinati” dalla nostra peccaminosa civiltà, vengano al più presto distrutti. E se dipendendesse da me, vorrei un altro 13 febbraio, un milione di donne in piazza contro la ferocia di quei maschi malati, femminicidi, generocidi.

Qualcuna mi convinca del fatto che sto sbagliando.

 

 

cronaca, Donne e Uomini, femminicidio, questione maschile Agosto 25, 2014

Quei bravi ragazzi che ammazzano donne

“Un ragazzo d’oro”, “un ragazzo dolce e uno zio premuroso”, “una persona eccezionale”. Che un bel pomeriggio di domenica, in una villa dell’Eur, Roma, aggredisce e decapita una donna (colf) ucraina: di lei, carne da lavoro, carne da macello, viene riferito a malapena il nome, Oksana Martseniuk, oltre al fatto che era “bella, bionda, occhi chiari”, il che ne fa una vittima predestinata. Di lui, Federico Leonelli, un omone di due metri, si spiega anche che era depresso perché gli era morta la compagna. E vai ovunque con il “raptus”, parola totalmente priva di senso che dovrebbe essere abolita dal lessico giornalistico: perché insegna alla gente che chiunque di noi, preferibilmente maschio, può essere “rapito” (questo il significato letterale) da un demone che improvvisamente si impossessa della nostra volontà e ci fa agire diabolicamente.

Il “raptus” è l’altra faccia del “bravo ragazzo“: buona parte degli 8 assassini di donne e di bambini delle ultimissime settimane sono stati definiti “bravi ragazzi”, “padri amorosi”, “persone perbene”. Mostruosamente, gran parte dei media dà pubblicità a questo modello, preciso come un algoritmo, del brav’uomo che di colpo, un pomeriggio d’estate, squarta una donna o affonda una lama nel corpicino di una bimbetta di un anno e mezzo. Con il coro dei vicini e il giornalista corifeo di turno che come in una tragedia greca cantano il “bravo ragazzo” e le sue gesta, come se la vittima in fondo fosse lui. Cercando le sue ragioni e laddove possibile, solidarizzando con lui (“era depresso”, “lei voleva lasciarlo”). E dimenticano le vittime vere, non dicendo quasi nulla di loro se non che erano agnelli perfetti, teneri e biondi, carne indistinta per il sacrificio. E questo nonostante le donne che si occupano da decenni di violenza si siano sgolate a dire che i segni premonitori ci sono sempre, che un femminicidio non nasce mai dal nulla, ma è preceduto da una lunga teoria di violenza, sorda o tenuta muta.

Così anche nel caso di Federico Leonelli salta fuori che il bravo ragazzo era piuttosto fumantino, che aveva una certa ossessione per le armi da taglio, e a quanto pare aveva menato sorella e madre (ma la sorella non dice una parola).

Insomma, un pomeriggio di domenica, in una bella villa all’Eur, un bravo ragazzo ci prova con la “colf ucraina bionda e bella”. La quale inaspettatamente -il rifiuto da parte di una donna, specie se desiderabile, continua a essere un fattore imprevisto, a meno che la donna non intenda essere canonizzata- gli dice di no. Scatenando la furia di lui, furia dell’essere rifiutati che ognuna di noi ha conosciuto, almeno una volta nella vita, benché in forma non fatale visto che siamo qui a raccontarcelo. Dunque, lui le salta addosso e la ammazza. Poi -io il film lo vedo così- il bravo ragazzo comincia freddamente a pensare come liberarsi del fagotto di carne. Più comodo farlo a pezzi. Allora si infila una tuta mimetica e una maschera, perché l’operazione squartamento è piuttosto sporchevole. Impugna una mannaia e comincia dalla testa, come si fa con un pollo. Purtroppo la polizia interrompe il lavoro, chiamata dai vicini di casa allarmati dalle urla della donna. Lui tenta disperatamente la fuga, brandendo la mannaia. Gli uomini delle forze dell’ordine sparano -qui la dinamica andrà chiarita- e l’assassino viene ucciso.

Ecco, per esempio: ma se i direttori dei giornali e delle testate televisive e radiofoniche, che sono quasi tutti uomini, provassero a cambiare prospettiva? Se per esempio partissero da sé, senza delegare alle donne di sbrogliare la matassa, e proprio da quell’esperienza del rifiuto che ognuno di loro avrà sperimentato, e dai sentimenti che hanno provato? Se ci scrivessero un editoriale di proprio pugno, o lo commissionassero al più brillante dei propri opinionisti? Se assumessero fino in fondo la questione maschile?

Perché il no di una donna -o il sì di quella donna a qualcos’altro, anche solo un sì a se stessa e al proprio desiderio-, salvo eccezioni è la costante dei femminicidi. Quei bravi ragazzi, quei goodfellas che picchiano e violentano e perseguitano e uccidono le mogli, le compagne, i figli e le prede occasionali, stanno quasi sempre reagendo a un’esclusione che vivono come intollerabile. Se per una volta cambiassimo algoritmo, se provassimo a scandagliare qui, in questo passaggio comunissimo e delicatissimo –l’esperienza maschile del no femminile-, se cercassimo di capire come in queste circostanze si produce, nei soggetti più deboli, una vera e propria frana psichica, ecco: non faremmo davvero un passo avanti? Non contribuiremmo a salvare la vita di tante donne, vittime designate, prima di essere costretti a parlare di loro in cronaca?

Aggiornamento 27 agosto: intanto l’autopsia di Oksana ha accertato che la decapitazione è avvenuta dopo la morte. Quindi prima è stata brutalmente uccisa a coltellate, quindi è iniziato lo smembramento del suo corpo.

 

femminicidio, questione maschile Giugno 26, 2014

A chi i fondi per la lotta anti-violenza?

Il 10 luglio a Roma-i dettagli in coda al post- i Centri antiviolenza e le Case delle Donne associate in D.i.Re manifesteranno contro i criteri di stanziamento dei fondi governativi contro la violenza e il femminicidio.

A seguire tutte le info sulla vicenda.

 

Stamattina la rete dei Centri antiviolenza e delle Case delle donne della Lombardia (16 in tutto) ha animato un affollato incontro al Pirellone per illustrare pratica e metodologia condivise dell’intervento.

Ma anche per confrontarsi sulla questione dei finanziamenti ad hoc previsti dal decreto Femminicidio e dalla legge di Stabilità. Ci vorrà ancora un mese perché lo stanziamento di 17 milioni sia effettivo: la Conferenza Stato-regioni sta ancora discutendo sui criteri di distribuzione. Quello che è certo, i soldi arriveranno alle Regioni, che a loro volta li faranno amministrare ai Comuni, titolati alla decisione finale sui centri destinatari.

Destano qualche preoccupazione le dichiarazioni dell’assessora regionale alle Pari Opportunità Paola Bulbarelli, già Pdl, che ha indicato come obiettivo 44 centri operativi entro l’anno, con relativi corsi di formazione.

Al momento, come dicevamo, i Centri e le Case sono 16: la prima è stata la Casa delle Donne maltrattate di Milano, fondata dalla pioniera Marisa Guarneri e da altre nella seconda metà degli anni Ottanta, quando quella della violenza appariva come una questione marginale. Il metodo di intervento messo a punto e lungamente sperimentato nella Casa di Milano è stato in seguito acquisito e praticato nella Case nate successivamente in Lombardia e su tutto il territorio nazionale (in Italia la rete si chiama D.i.Re e conta 62 centri)

Nel lavoro contro la violenza sessista la metodologia è tutto.

“E’ un metodo basato sulla relazione tra donne” ha chiarito Manuela Ulivi, Presidente della Casa delle Donne maltrattate di Milano “che stabilisce molto precisamente percorso e criteri dal momento delicatissimo dell’accoglienza, alla costruzione di un progetto non sulla donna ma con la donna, la quale resta la protagonista insostituibile del suo cammino di liberazione dalla violenza. E’ lei,  non le “esperte”, a stabilire i tempi del suo cammino, senza mai essere giudicata o eterodiretta. E’ lei ad attivare le sue risorse interiori, la sua forza e i suoi desideri, in un percorso condiviso con le altre che mettono a disposizione professionalità, esperienza ed empatia, ma soprattutto la voglia di condividere con la donna questo passaggio delicato della sua vita”.

Uno sportello anti-violenza, un “centro” messo in piedi in quattro e quattr’otto, che non nascano da questo desiderio e da questa esperienza ma da un atto burocratico o, peggio, dall’interesse a intercettare i fondi regionali o nazionali, non hanno niente a che vedere con queste realtà consolidate.

Negli ultimi anni è nato un vero e proprio business, molto italiano, e perfino uno showbitz dell’anti-violenza: esperti e centri improvvisati, corsi volanti di formazione, operazioni editoriali instant e di dubbia qualità, iniziative e spettacoli “d’emergenza”. Non è in questo modo che si contrastano violenza e femminicidio.

Che la Lombardia, come annunciato dall’assessora Bulbarelli, nel giro di pochi mesi conti di istituire un’altra trentina di centri individuati dai comuni come possibili destinatari delle risorse stanziate non è certamente una buona notizia, e fa temere il solito peggio.

 

Aggiornamento domenica 29 giugno:

Duro comunicato dei Centri antiviolenza e delle Case delle Donne
che ricevono solo le briciole dei finanziamenti governativi

 Ai centri antiviolenza solo le briciole dei finanziamenti stanziati:
e il resto dei fondi a chi?

Sei mila euro l’anno per due anni: è quanto il Governo intende assegnare a ognuno degli storici Centri antiviolenza e alle Case Rifugio che operano con efficacia da decenni e in regime di volontariato.
E’ in questa esperienza che si radicano il sapere e il metodo che consentono a tante donne di salvarsi la vita, e di ritrovare autonomia e libertà.
Ma quei soldi non basteranno nemmeno a pagare le bollette telefoniche.

A chi gran parte degli stanziamenti (circa 15 milioni di euro)?
Alle Regioni, che finanzieranno progetti sulla base di bandi: la scelta è quella di sostenere “centri” e sportelli istituiti last minute, oltre che di istituzionalizzare i percorsi di uscita dalla violenza delle donne.

Apprendiamo dalla stampa – il Sole 24 ORE del 27 giugno 2014 – le incredibili modalità di riparto dei fondi -17 milioni di euro- stanziati dalla L. 119/2013 detta contro il femminicidio per gli anni 2013/14.

Secondo una mappatura in base a criteri illeggibili, di questi 17 milioni ai 352 Centri Antiviolenza e Case Rifugio toccheranno solo 2.260.000 euro, circa 6.000 euro per ciascun centro.
Inoltre tutti i centri, pubblici e privati, saranno finanziati allo stesso modo, senza tenere conto del fatto che diversamente dai privati i centri pubblici hanno sedi, utenze e personale già pagati.

Questa scelta del Governo contravviene in modo netto alla Convenzione di Istanbul per la prevenzione e la lotta contro la violenza sulle donne e la violenza domestica, che l’Italia ha ratificato e che entrerà in vigore il prossimo 1° agosto, la quale prevede siano destinate “ adeguate risorse finanziarie e umane per la corretta applicazione delle politiche integrate, misure e programmi per prevenire e combattere tutte le forme di violenza che rientrano nel campo di applicazione della presente Convenzione, incluse quelle svolte da organizzazioni non governative e dalla società civile” (Articolo 8)
Nella Convenzione si privilegia il lavoro dei centri di donne indipendenti, mentre il Governo Italiano sceglie di destinare la maggior parte dei finanziamenti alle reti di carattere istituzionale.

L’idea e’ che la politica non intenda rinunciare a ‘intercettare’ quei fondi, e che si proponga di controllare e ridurre allo stremo i Centri antiviolenza indipendenti, gia’ operativi da molti anni e associati nella rete nazionale D.i.Re (Donne in Rete Contro la Violenza).

Denunciamo questo modo di procedere.

Il Governo non ha sino ad oggi neppure formulato un Piano Nazionale Antiviolenza, e si presenta in Europa senza avere intrapreso un confronto politico serio con tutte coloro che lavorano da oltre 20 anni sul territorio, offrendo politiche e servizi di qualità per prevenire e contrastare il fenomeno della violenza sulle donne.

Roma, 28 giugno 2014
Di.Re Donne in Rete contro la violenza
Casa Internazionale delle Donne – Via della Lungara, 19 – 00165 Roma, Italia, Cell 3927200580 – Tel 06 68892502 Fax 06 3244992 – Email direcontrolaviolenza@women.it; www.direcontrolaviolenza.it

 

Aggiornamento 3 luglio: e ora non c’è più nemmeno l’arresto preventivo per maltrattanti e stalker.

Aggiornamento 4 luglio: il 10 luglio a Roma manifestazione dei centri antiviolenza

 

 

 

 

Donne e Uomini, femminicidio Giugno 17, 2014

Motta Visconti: il male, come sempre, tanto banale

La storia si potrebbe scrivere in automatico: lui gentile, perbene, per i vicini delle villette accanto niente da dire, per i colleghi tutto ok, per sua madre “si volevano bene”. Così educato da scusarsi con gli amici per essersi autoinvitato a vedere la partita, un minuto dopo aver sgozzato tutti quanti. Nessun segno di squilibrio. Sulla sua pagina Fb la torta “per la mia piccola stellina che compie 4 anni”.

Un‘infelicità sorda e muta. Dover vivere una vita che non era la sua. A quanto pare ci aveva provato a una settimana dalla data delle nozze: non se la sentiva più di infilarsi in quella che nella confessione agli inquirenti ha definito “una gabbia”. Aveva tentato di scendere in corsa, alla fine non ce l’aveva fatta. Normale anche questo, il panico pre-nuziale, capita a tanti. Poi le cose si sistemano.

Sembrava che si fossero sistemate, almeno. Finchè l’invaghimento per una collega, film tutto e solo suo, non aveva fatto saltare il tappo. La collega che non ci pensava proprio, ma la cosa tutto sommato era irrilevante. Lui aveva risentito l’odore della vita “vera”, l’infelicità si era rifatta violenta e insostenibile, il desiderio di fuga incontenibile, la moglie come una carceriera, i figli come le catene di cui lei si serviva.

Normale, normalissimo a un certo punto della vita: di solito gli uomini se la cavano con un giro extra, o anche un paio. Poi in genere si fanno riacchiappare per la collottola e rientrano nei ranghi. O qualche volta chiudono con la vita di prima e ne cominciano un’altra. Ma a dire “basta” di solito sono le donne, non loro.

Un uomo troppo educato e represso, che si sposa controvoglia, fa il padre controvoglia, vive una vita controvoglia. Che riesce a restare in surplace finché il vento violentissimo di una nuova passione non lo fa vacillare. Un uomo eterodiretto, che non sa fare i conti con i propri desideri, che non sa gestirli trovando le mediazioni.

“Non avevo il coraggio di chiedere a mia moglie si separarci”, ha detto agli inquirenti. E poi “con il divorzio i figli restano”.

Infantilmente, o niente di niente, o tutto. E il tutto richiede di fare tabula rasa, il reset completo, l’annientamento, l’annichilimento di ogni sentire: la pietà, almeno quella, per la moglie; la tenerezza, almeno quella, per i propri figli; l’orrore, almeno quello, per quanto si è fatto, mentre si esulta per il gol del Balo.

Carlo Lissi, osserva lo psichiatra Vittorino Andreoli, non è un pazzo. Quasi mai lo sono, anche se tutti, e in particolare tutte, vorremmo che quanto meno lo fossero. Vorremmo quanto meno ragioni lampanti, scenari solenni, radici profonde per il male. Ma il male, come sempre, è tanto banale.

Come quasi tutti quelli che ammazzano le mogli e spesso anche i figli, Lissi è un uomo incapace di gestire i suoi sentimenti, di darsi una misura, la parte razionale totalmente sconnessa da quella emotiva.

Carlo Lissi è il terzo figlio, l’unico rimasto al mondo. Come quasi tutti gli uomini che ammazzano le loro compagne, è come un neonato di 80 kg, travolto dalla “sarabanda infernale”: così lo psicoanalista Donald Winnicott definì il corpo-a-corpo tra la madre onnipotente e il piccolo inerme tra le sue braccia. Quei piccoli incapaci di tutto che la madre la ucciderebbero, quando se ne sentono minacciati.

Uomini che da questa scena madre non escono mai: i neonati impazziti di paura non chiedono il divorzio.

E’ lì, su questa scena madre che dobbiamo puntare lo sguardo per capirci qualcosa.

 

Donne e Uomini, femminicidio, questione maschile Maggio 30, 2014

Il governo italiano a fianco delle donne indiane

Caro Presidente Matteo Renzi, cara Ministra Federica Mogherini,

quella che vedete è una delle immagini più dure che io abbia mai pubblicato o semplicemente visto. Lo faccio dolorosamente ma consapevolmente.

Sono i corpi di due ragazzine, 14 e 15 anni, di Katra Shahadatganj, villaggio rurale dell’Uttar Pradesh, India Nord-Orientale, vittime di un atroce gang-rape, stupro di gruppo da parte di 7 uomini (fra cui due militari: non è un fatto infrequente) a cui sono seguite percosse e impiccagione.

Questa insopportabile immagine illustra la rilevanza delle questione maschile in un Paese come l’India dove si verifica uno stupro ogni 22 minuti -calcolando solo la punta dell’iceberg dei casi denunciati-. E dove le donne sono intese come povere cose a disposizione di chiunque, specie se appartenenti alle caste più umili come nel caso di queste due bambine. Tanto che la violenza maschile è diventata una faccenda politica di primaria importanza.

Questa immagine dimostra che cosa alcuni uomini sono disposti a fare solo per consumare un rapporto sessuale: o, più precisamente, dimostra l’odio feroce per le donne, contro le quali lo stupro diventa un’arma letale. La pubblico per questo.

Esiste una remota possibilità, secondo gli investigatori, che le due bambine non siano state impiccate dai loro aguzzini ma che si siano volontariamente appese all’albero di mango pur di non dover sopportare la vergogna. Più probabilmente sono stati gli stessi stupratori a tentare di uccidere le ragazze strangolandole e poi impiccandole per non correre il rischio di essere identificati.

La protesta silenziosa degli abitanti del villaggio che si sono radunati sotto il mango per sollecitare le ricerche da parte della polizia ha portato alla rapida cattura degli stupratori assassini.

Sarebbe importante che il governo italiano manifestasse la sua vicinanza al governo indiano, alle donne e agli uomini di buona volontà di quel Paese che si trovano ad affrontare una simile emergenza: la violenza sessista è una realtà universale, ma in India raggiunge le dimensioni di una catastrofe.

E anche che inducesse qualche dubbio sull’effettiva efficacia della pena capitale contro la violenza, misura invocata da molti indiani ma contrastata da altre e altri, in particolare dal movimento delle donne. La pena di morte, è ampiamente dimostrato, non funziona mai come deterrente.

Sul fronte della violenza, come mi spiega l’intellettuale Urvashi Butalia, aumenta anzi il rischio per le donne, che possono venire uccise dopo lo stupro in modo da non poter testimoniare; o che possono esitare a denunciare: spesso gli stupratori sono familiari e amici, e le vittime non vogliono la loro morte.

Credo, e tante e tanti con me, che di fronte a una vicenda come questa qualcosa si debba fare.

 

Aggiornamento martedì 3 giugno: un altro caso orribile. Violentata, costretta a ingurgitare acido e strangolata.

Aggiornamento mercoledì 4 giugno: ormai un bollettino quotidiano. Un’altra ragazza impiccata.

 

 

cultura, Donne e Uomini, femminicidio, questione maschile Gennaio 31, 2014

Cose da uomini: 4 artisti contro la violenza

opera di Gianni Moretti, uno dei 4 artisti che partecipano al progetto “Cose da uomini”

Ottima idea: proporre a 4 artisti trentenni un faccia-a-faccia intensivo con la “questione maschile”, fargli fare  i conti nel profondo con la parzialità della propria identità sessuata e con le radici culturali della violenza. Perché possano restituire, nelle forme della loro arte, il senso di questa esperienza.

“Cose da uomini- La violenza sulle donne nelle opere di quattro artisti contemporanei” è un’iniziativa organizzata a Bolzano per iniziativa di Susanna Sara Mandice, collaboratrice del Mart, museo di arte moderna e contemporanea di Trento e Rovereto, e con il supporto della Città di Bolzano, di Gea – Centro d’ascolto Antiviolenza, della Caritas e della Questura di Bolzano (partner: Walthers’, Rosenberg&Selliers e Franzmagazine).

Quattro artisti, Gianni Moretti, Benjamin Tomasi, Benno Steinegger, Cosimo Veneziano, ospitati in un workshop residenziale di 4 giorni per un training a tempo pieno, una specie di master esistenziale sul tema della violenza sessista e dell’identità maschile condotto da qualificati addetti ai lavori: Stefano Ciccone dell’Associazione Maschile Plurale, che porta a Bolzano il suo ricchissimo percorso di riflessione autocosciente, operatori dei consultori per i maltrattanti della Caritas e operatrici della Casa delle donne di Bolzano, forze dell’ordine, e altre-i.

Gli artisti “restituiranno” con 4 opere, nei linguaggi più diversi, il senso di questa esperienza e l’incontro “a partire da sé” con il tema della violenza.

Le opere saranno esposte dal 7 marzo al 4 maggio presso la Galleria Civica di Bolzano.

femminicidio, questione maschile Gennaio 3, 2014

India: morire di pena di morte

India. Manifestazioni contro la violenza sessuale

Era una bambina di 12 anni l’indiana stuprata da un branco di 6 uomini e poi bruciata viva a Madhyagram, nei pressi di Calcutta. Ed era incinta. Il primo stupro il 25 ottobre, il secondo il giorno successivo, dopo che la bambina era andata a denunciare la violenza. Il 23 dicembre due degli stupratori si sono introdotti a casa sua e le hanno dato fuoco. La bambina è morta dopo qualche giorno di agonia. Sei uomini sono stati arrestati e a Calcutta sono esplose le proteste.

Da qualche mese in India, in seguito allo stupro e all’uccisione della 23enne Jyoti Singh Pandey, la violenza sessuale è punita con la pena di morte. Il movimento delle donne indiane aveva messo in guardia contro la decisione di introdurre la pena capitale per gli stupratori: molte meno donne avrebbero avuto il coraggio di denunciare, e le stuprate avrebbero rischiato l’eliminazione fisica: esattamente quello che è capitato a Calcutta. Rileggete quello che ci aveva detto a riguardo l’intellettuale femminista Urvashi Butalia.

La politica dell’inasprimento di pena non funziona per i reati sessuali: invocare  la pena di morte è una comprensibile risposta emotiva, ma di nessuna efficacia. Al contrario, può aumentare i rischi per le vittime.

Fatte le debite proporzioni, gli aumenti di pena e la non revocabilità della querela introdotti nel nostro Paese dal recente decreto antifemminicidio non costituiscono un passo avanti: anche da noi la definitività può scoraggiare le denunce.

Le cose da fare sono ben altre.

 

 

 

bambini, Corpo-anima, esperienze, femminicidio, questione maschile Dicembre 5, 2013

Quanto ci costa il dolore

 

 

Ieri un convegno all’università Bocconi ha valutato in oltre 13 miliardi il costo medio annuo che grava sulla spesa pubblica italiana per le conseguenze dei maltrattamenti sui minori. Qualche settimana fa è stata quantificata in 17 miliardi la spesa media annua che consegue al maltrattamento sulle donne.

In questo periodo usa molto quantificare il costo del dolore. E allora due osservazioni:

1. la violenza sulle donne, ma anche la grande maggioranza degli abusi sui minori sono commessi da uomini. Una lettura neutra di queste casistiche non aiuta la prevenzione, che deve orientarsi su una comprensione dei meccanismi della sessualità e dell’aggressività maschili, intesi non come dati di natura immodificabili ma come modelli culturali tuttora dominanti ma in caduta, e sui quali si può e si deve lavorare

2. la quantificazione di queste problematiche può dare una misura precisa della loro entità, ma resta un’arma a doppio taglio. Ridurre ogni fenomeno infatti alla misura simbolica unica del denaro ci fa permanere in quella logica di consumo che attribuisce un prezzo a ogni cosa, riducendola a oggetto di mercato. E’ precisamente questa logica di oggettificazione dei soggetti -che siano donne o che siano bambine/i- quella che alimenta violenze e abusi.

L’esperienza del dolore -unica, soggettiva, irripetibile- non può essere ridotta a numeri. O meglio: può esserlo, ma si tratta di un approccio insidioso.

Donne e Uomini, femminicidio, Politica, questione maschile Novembre 24, 2013

Disonorare la violenza maschile

 

Università di Parma, 14-15 novembre. Convegno “Disonorare la violenza-Le radici culturali della violenza maschile”

Voglio celebrare –si fa per dire- insieme a voi questa Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza sulle donne innanzitutto con uno spostamento immediato dell’obiettivo: dalle donne (le vittime) agli uomini (gli autori). Impariamo a chiamare la cosa con il suo nome: violenza maschile. Raccolgo questo invito da donne e uomini che lo scorso 14-15 novembre si sono incontrati all’Università di Parma per scambiare pensieri ed esperienze nel corso del seminario “Disonorare la violenza-Le radici culturali della violenza maschile”. Studiose e studiosi, docenti, operatrici e operatori dei centri antiviolenza e dei servizi pubblici, donne e uomini impegnati da molti anni in un percorso di autocoscienza e di politica comune che hanno contribuito con il loro sapere e i loro vissuti alla due giorni organizzata da Marco Deriu, docente di sociologia a Parma e membro dell’associazione Maschile Plurale:

“Ho voluto rischiare una “Babele” di approcci e di linguaggi” dice Deriu, facendo un bilancio “ma tutti hanno contribuito e si sono posti in ascolto. Fatto importantissimo, nessuno ha riproposto qui la logica securitaria che ha informato il decreto antifemminicidio. Per la stragrande maggioranza degli intervenuti la questione della violenza maschile è culturale: i casi di femminicidio non sono letti come episodi di devianza, ma come fatti paradigmatici, che mettono in gioco questioni di identità”.

Nella sua introduzione alle giornate di studio, alle quali hanno partecipato anche studenti dell’università, Marco Deriu ha voluto ricordare che fra il 2000 e il 2012 in Italia sono stati registrati 2020 casi di femminicidio.

Siamo contro un approccio securitario, paternalistico e vendicativo” ha detto. “La cornice di emergenza rischia di riproporre gli stessi codici maschili che producono la violenza. Si deve evitare di proiettare il problema fuori di sé, intendendolo come “sociale”. Noi uomini dobbiamo essere consapevoli della nostra cultura. Un’altra scommessa è che questa collaborazione tra donne e uomini sul tema della violenza possa diventare una pratica riconosciuta su molti altri temi. Anche il linguaggio che usiamo è importantissimo: Foucault parlava di formazioni discorsive che diventano cornici, modi di inquadrare le questioni. Per esempio: parlando di violenza sulle donne si guarda prevalentemente alla vittima, lasciando in ombra l’autore. Parlare invece di violenza maschile sposta la cornice. Se le donne vengono intese come soggetti deboli e vulnerabili, si afferma che gli uomini sono forti e invulnerabili. Ma le stesse modalità dei femminicidi (solo nel 10 per cento dei casi a mani nude, il 30 per cento con armi da fuoco, il 30 per cento con armi da taglio, il 30 per cento con armi improprie) smonta l’idea della forza e dell’invulnerabilità maschile. Molti autori di violenza pensano a ciò che hanno fatto come a qualcosa di  morale e onorevole. Si devono individuare i fondamenti che autorizzano, legittimano, fondano la violenza nelle relazioni. Dobbiamo disonorare la violenza”.

 

Questo post è  piuttosto lungo. Propone spunti da approfondire e richiede una certa attenzione. A seguire alcune delle cose ascoltate nella due giorni di Parma: solo poche parole, a volte semplici flash selezionati in soggettiva (gli unici testi integrali di cui al momento dispongo e che linko sono quelli di Sergio Manghi e Letizia Paolozzi: sarò eventualmente lieta di pubblicarne altri). Chiedo anche scusa ai molti che non sono riuscita a menzionare. Leggete queste parole con calma, e meditatele.

(in coda al post trovate invece il link a un testo di Maschile Plurale, diffuso nelle ultime ore, che invita ad andare oltre al discorso sulla violenza per una pratica politica condivisa di uomini e donne su altri temi. Molto importante!)

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“L’11 per cento delle donne in gravidanza subisce violenza. E’ proprio durante la gravidanza che la violenza maschile debutta o aumenta”. Antonella Grazia, coordinamento politiche sociali Regione Emilia Romagna.

La formazione degli psicologi contro la violenza non basta. Ci dev’essere un vero cambio di paradigma culturale”. Paolo Volta, direttore attività sociosanitarie AUSL Parma.

Come nel caso delle baby-prostitute di Roma,  si continua a porre la vittima al centro dell’attenzione. Ma la vittima non è la causa della violenza. E’ la sessualità maschile che va messa al centro. A nessun uomo è consentito chiamarsi fuori. Si tratta di sottrarsi all’idea che la sessualità sia agita in un campo dove si oppongono forza e resistenza”. Alessandro Bosi, sociologo, università di Parma.

Continuare a pensare alle donne come soggetti deboli e da tutelare riproduce un ambito semantico che ammette la violenza”. Laura Fruggeri, psicologa, università di Parma.

Spesso nella violenza all’interno della coppia c’è anche amore che corre, con esiti mostruosi”. Letizia Paolozzi, giornalista (l’intervento integrale qui).

Il decreto anti-femminicidio punta sull’emergenza e sulla repressione: paradossalmente, anziché destrutturare il paradigma della violenza –donna soggetto debole-, questa logica lo rafforza, dando l’idea che il problema siano quei pochi criminali, e non la sessualità maschile”. Alberto Leiss, associazione Maschile Plurale.

In carcere incontro uomini che non hanno saputo che cosa fare della loro forza. Cioè della loro vulnerabilità e della loro mancanza di intenzionalità. Si tratta di trovare un nuovo esercizio per quella forza. Oggi noi operatori siamo in difficoltà perché è caduta la barriera protettiva della disciplina, e in quello sfiguramento a cui siamo esposti riconosciamo parti di noi… Si fugge la propria fragilità come se fosse la morte, e si tenta l’ultimo controllo sulla vita, dandole la morte”. Ivo Lizzola, pedagogista, università di Bergamo.

La scena della violenza maschile è sempre triangolare: uomo-donna-uomo. La contesa di Lancillotto e Artù per Ginevra era una contesa di potere fra uomini. Per capire la violenza su una donna, cherchez l’homme, l’altro uomo: una convergenza omosessuale che esclude ogni donna, ancora prima della violenza”. Sergio Manghi, sociologo, università di Parma (qui il testo integrale dell’intervento).

 “Mi relazionavo alle donne con un atteggiamento di superiorità o di inferiorità. La consapevolezza della differenza ha sciolto questo nodo. Ho deposto il sentimento di superiorità riconoscendo la libertà femminile. Il patriarcato ha pensato la differenza sessuale come inferiorizzazione della donna, il che permette l’esercizio del dominio. Ma io mi sforzo di deporre le attese che il patriarcato ha posto in me. Per non sentirmi una nullità rinunciando al potere, confido nel fatto che mi venga riconosciuta una certa autorità. A rendermi autorevole è la mia fedeltà a un desiderio profondo, che non si identifica con il mero desiderio sessuale”. Marco Cazzaniga, Associazione Identità e differenza di Spinea.

Un uomo che ha agito violenza mi ha detto: mi chiedo come mai all’esterno sono irreprensibile, mentre all’interno, nella mia vita personale, commetto atti così gravi. Gli uomini si interrogano quando viene data loro la possibilità di farlo. Secondo la definizione di Per Isdal, psicologo norvegese fra i primi a occuparsi di questi temi, violenza è qualunque cosa impedisca a una persona di fare quello che vuole fare, o che la induca a fare ciò che non vuole, e ciò indipendentemente dal fatto che la persona si senta o non si senta offesa”. Alessandro De Rosa, LDV -Liberiamoci dalla Violenza- di Modena.

“C’è il rischio che tutto questo parlare di vittime di violenza ci scaraventi nella miseria femminile. E’ molto importante illuminare la forza delle donne dove c’è. Sara Gandini, Libreria delle donne di Milano.

 “Siamo tutti allenati a non riconoscere la violenza che agiamo, è molto importante entrare in contatto anche con la nostra violenza: non potrò mai portare qualcuno dove io stessa non sono arrivata: ciò che serve è una pratica di relazione. Gli autori di violenza si rappresentano quasi sempre come sovrastati e totalmente dipendenti dalle donne. Come possiamo parlare di un dominio maschile quando tutte facciamo esperienza della vulnerabilità degli uomini? Il fatto è che se non veniamo assoggettate siamo pericolose per la soggettività maschile”. Chantal Podio, psichiatra, Forum Lou Salomè di Milano.

Lo stupro e la violenza non sono devianza e disordine, ma la conferma esacerbata di un ordine: nel lavoro di Maschile Plurale siamo partiti di qui. Io credo che la violenza maschile non sia frutto di una natura, ma di una cultura che chiede di essere discussa. La crisi dell’ordine simbolico patriarcale mi mette in crisi, ma dà anche spazio alla mia vita. Non vogliamo più essere “contro la violenza”: si tratta di poter trovare un nuovo modo del desiderio degli uomini”. Stefano Ciccone, associazione Maschile Plurale

Per i maschi musulmani la forza dei ruoli imposti dal codice d’onore è molto forte: uscirne è difficilissimo. La complicità di molte donne con questi meccanismi è legata all’amore: amano i propri padri e fratelli. Non possiamo cambiare se non coinvolgiamo anche queste donne e questi uomini. E non basta dire: prima o poi ci arriveranno. La loro sofferenza è qui e ora”. Tiziana Dal Pra, associazione Trama di Terra, Imola.

Nessun reato tanto grave gode di una simile complicità. Dare “quattro schiaffi a quella stronza” o “farle la festa” trova complicità estese in tutti gli ambienti sociali”. Daniele Barbieri, giornalista

La paura mi porta a contatto con la mia ombra, zona di buio che però procede a un’apertura di verità. Il rischio è farsi paralizzare dalla paura: è qui che posso prendere la scorciatoia della violenza. Un altro rischio è desiderare solo ciò che è dato come desiderabile: qui ciò che si paralizza è l’autenticità del desiderio”. Alessio Miceli, associazione Maschile Plurale

La dipendenza non riconosciuta si lega alla violenza. Si diventa incapaci di mediazione e di un sano conflitto. La dipendenza parla dell’origine, e della potenza generativa della madre, di cui gli uomini hanno sempre cercato di appropriarsi. L’altra faccia della dipendenza è un’idea di autonomia come libertà assoluta e senza legami. Questa coppia di opposti, dipendenza-autonomia, nasconde la realtà, creando molto malessere nelle relazioni tra donne e uomini”. Giacomo Mambriani, associazione Maschile Plurale

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qui, come detto sopra, il testo con cui Maschile Plurale invita ad andare oltre la violenza. Leggetelo e condividetelo.

 

 

Corpo-anima, femminicidio, salute Novembre 23, 2013

Violenza è anche non applicare la 194

 

Un’amica anestesista mi racconta che è vicina al burn out: non ce la fa più, come tutti quei pochi medici non-obiettori che continuano a garantire l’applicazione della legge 194 sull’interruzione di gravidanza a prezzo di salute psichica e carriera. Fossi in loro incrocerei le braccia.

A 35 anni dall’entrata in vigore della legge sarà fastidioso dover ancora parlare di aborto -figuriamoci praticarli in catena di montaggio-. Ma il problema c’è e non può non essere visto.

70 per cento in media di obiezione, con punte che superano l’80 al Sud (dati probabilmente sottostimati) e ospedali, anche in Lombardia, che rifiutano di erogare il servizio tout court. Turismo abortivo –dover andare in un’altra regione per interrompere la gravidanza- e ritorno alla clandestinità, le ragazzine che comprano porcherie velenose dagli spacciatori davanti alle stazioni.

Qui non è questione di bilanci, ma di una legge più volte e invano attaccata dall’esterno che di fatto è stata abrogata dall’interno. Tra l’altro è in corso una raccolta di firme da parte di varie organizzazioni no-choice per un nuovo referendum abrogativo.

Le strade sono due: garantire l’applicazione della legge con l’assunzione di una quota di personale che assicuri, almeno per un periodo stabilito, di non obiettare; oppure cancellare del tutto la legge, senza ipocrisie, e tornare all’ipotesi della depenalizzazione (ognuna interrompa la gravidanza in sicurezza dove ritiene, senza incorrere in un reato: oggi l’aborto è legale solo nelle strutture ospedaliere).

Prima di istituire i cimiteri dei feti, come di recente nella Firenze di Renzi, si faccia in modo che al cimitero non tornino a finirci le donne. Perché è femminicidio anche questo.