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Donne e Uomini, economics, italia, lavoro, Politica Gennaio 10, 2014

#JobsAct: i lavoratori sono lavoratrici

Sorprendente che l’Europa, nella persona del commissario al lavoro Ue Laszlo Andor, promuova a tambur battente una bozza di riforma del lavoro – allo stato “un elenco di titoli”, come scrive Tito Boeri- formulata non dal governo di un Paese membro, ma dalla segreteria di un partito di quel Paese. Forse non è mai successo prima. Come se l’Europa preferisse dialogare direttamente con il prossimo titolare -non a quello del 2015, ma verosimilmente già del 2014- che entra in campo a gamba tesa, senza perdere tempo a cincischiare con un governo che, da Cancellieri a Saccomanni a Di Girolamo, fa acqua da tutte le parti.

Insomma, tra la calendarizzazione del dibattito sulla legge elettorale -il 27 gennaio- e l’approvazione Ue, quella di ieri per Matteo Renzi è stata una gran giornata. Sul Jobs Act per ora il dibattito è cauto. La segreteria Pd (in particolare Marianna Madia e Filippo Taddei) è al lavoro sui dettagli, che non sono roba da poco: tipo da dove trarre le risorse per il sussidio universale, che costerebbe dai 20 ai 30 miliardi, nonché per la diminuzione dell’Irap, o come diventare appealing per gli investitori stranieri, che girano al largo per gli alti costi dell’energia, l’eccesso di burocrazia e la giustizia che non funziona.

Ma qualcosa, da non-economista, mi sentirei di dirla, se può servire: sarebbe un’ottima cosa se al centro dell’attenzione riformatrice, anzichè un lavoratore maschio pensato come universale neutro, ci mettessimo una donna, vera grande novità del mondo del lavoro nell’ultimo mezzo secolo. Se poi ci mettessimo come soggetto la coppia madre-bambino/a -la maternità oggi è il primo tra i “diritti negati”- faremmo bingo, e a vantaggio anche delle non-madri e dei maschi.

Sarebbe un criterio metodologico ottimo per tutti. Non che il binomio donne-lavoro sia nuovo: a essere precisi, fino dalla notte dei tempi il lavoro è femminile tout court. La maggior parte di ore-lavoro nel mondo sono sempre state erogate da donne. Insomma, di lavoro le donne se ne intendono più di tutti, ne hanno grande competenza, e oggi questa competenza è molto utile. La novità dell’ultimo mezzo secolo semmai è l’accesso massiccio delle donne al lavoro retribuito: una presenza che ha cambiato e sta cambiando il senso e l’organizzazione del lavoro. Provare a pensare i lavoratori come lavoratrici quindi può dare buone indicazioni per tutti.

Se Matteo Renzi tenesse in mente “Francesca”, a cui si era rivolto durante il dibattito-primarie su Sky per promettergli più asili nido, non sarebbe una cattiva cosa. E Francesca avrebbe da dirgli essenzialmente questo:

Primum Vivere. Partire dalle vite reali per parlare di lavoro. La vita non può più essere intesa come quel poco tempo che resta una volta che sei uscita/o dall’ultima riunione indetta dal capufficio alle 19, che sei corsa/o al super per prendere 6 uova, dalla nonna a raccattare i bambini e via dicendo. Qualità e condizioni di lavoro incidono quanto le garanzie. C’è una flessibilità “buona” a cui non si vuole rinunciare. La riduzione della separazione tra lavoro e vita è la principale domanda che le donne stanno ponendo al mondo del lavoro, per sé e anche per gli uomini. Ben prima del posto fisso, in cima alle aspirazioni c’è una vita degna e non alienata, che comporta la possibilità e probabilmente anche il desiderio di muoversi tra un lavoro e l’altro, tra un posto e l’altro, godendo di adeguata protezione sociale.

Da questa idea femminilizzata del lavoro -e anche dal desiderio di prossimità dei nuovi padri– discende una diversa concezione del welfare e dei servizi, che non possono più essere intesi in modo rigido e fordista -otto ore di nido o nulla- ma chiedono il massimo di flessibilità e di modularità, fino alla personalizzazione. La riduzione del numero dei contratti, insomma, non può coincidere con la riduzione della vita a un modello unico. Flessibilità, smartwork, postazioni in remoto, contributi per uffici condivisi e coworking: tutto questo diminuirebbe anche la quota di servizi necessari, oltre a produrre altri effetti virtuosi, e contribuirebbe alla salute pubblica e alla natalità.

Contribuisco in questo modo alla discussione in corso, anch’io limitandomi per ora a enumerare qualche titolo.

Prevengo l’obiezione scontata-conosco i miei polli-: ma come? tutti questi capricci e queste sofisticherie proprio adesso che c’è la crisi? non ci si dovrebbe accontentare di poter lavorare e sbarcare il lunario, altro che smartwork? Io dico che non c’è mai stato momento migliore per discutere a fondo di lavoro, e non solo di contratti. Prima il pane e poi le rose, prima il quantum e poi il qualis: questi sono solo trompe l’oeil.

Si tratta, come dice l’americana Rebecca Solnit, di cambiare anche l’immaginario del cambiamento.

bambini, Donne e Uomini, economics, giovani, lavoro Agosto 28, 2013

Il successo non è obbligatorio: primum vivere

Una delle convinzioni da eradicare, a questo giro di boa, insieme a quella che ci sia una “generazione perduta” (vedi qui), è quella che tutte e tutti debbano perseguire il successo, e ovviamente esibirlo.

Ieri leggo un titolo malcelatamente trionfale su Repubblica: “Contrordine ragazze. E’ meglio la famiglia”. Dove si racconta che le giovani millennials britanniche, ovvero le ragazze nate tra l’85 e il 94, lavorano meno delle loro sorelle maggiori dieci anni fa, e se possono fanno i figli presto e se li curano personalmente. Non solo crisi, ma anche il crescente convincimento, rilevato dai sondaggi, che è meglio che un figlio te lo tiri su, anziché mollarlo al nido o a una sequela di baby sitter.

Il fatto è 1. che queste ragazze sono state bambine cresciute nei nidi e con le nanny, e nessuno ha maggiore competenza in materia: vogliono dare ai figli quello che loro non hanno avuto. 2. la pena e la fatica delle loro madri, sbattute tra sogni di carriera e sensi di colpa nei riguardi della famiglia l’hanno vista da vicino, e non hanno alcuna intenzione di ridursi pure loro come stracci. 3. la loro identità, come del resto quella dei loro coetanei maschi, non è più affidata in via esclusiva al lavoro, che viene fortemente smitizzato -e del resto non è facile mitizzare un lavoro precario e volatile- torna a essere, molto semplicemente, un modo per campare, possibilmente con qualche significato. La vita è altrove e il successo -più su, sempre più su- non è un obbligo. E per fare i figli è meglio non aspettare i 45 anni.

Queste piccole e dispettose post-emancipate non stanno dicendo affatto che “è meglio la famiglia” (e il maritino da baciare sulla porta alle 8 del mattino, e il twin-set con le perle, e tutti felici per il ritorno ai bei vecchi tempi). Stanno dicendo: primum vivere (deinde laborare). Stanno cioè indicando non un rassicurante coming back home, ma il pericoloso desiderio di un lavoro più prossimo e più simile alla vita: quindi la necessità di disorganizzarlo e riorganizzarlo secondo tempi e modi più femminili.

Il movimento storico è stato questo: accesso delle donne al lavoro retribuito (di quello non retribuito siamo campionesse da sempre); sogni di gloria, di carriera e di successo secondo i modi degli uomini (e teste sfondate sui glass ceiling, e vite sfracellate); desiderio di un lavoro finalmente bio-compatibile, che comprenda anche il fatto di non dover sbattere fordisticamente il tuo mocciosetto urlante di pochi mesi in mezzo ad altre decine di mocciosetti urlanti di pochi mesi in un’aula con i pupazzoni disegnati sui muri dalle sette del mattino alle sei del pomeriggio.

Tenerne conto quando -e se mai- si ripenseranno i servizi per le giovani madri: la vecchia e usurata idea di conciliazione è da buttare alle ortiche. Va messo in piedi qualcosa di meglio.

 

Donne e Uomini, economics, lavoro, Politica, questione maschile Dicembre 25, 2012

Caro Presidente Monti, noi donne…

Caro Presidente Monti,

Natale di lavoro per molti, questo. Anche per me, si parva licet. E poiché quest’anno sono esentata dal turno cucina -dietro ogni piccola donna c’è sempre una grande donna che l’aiuta in casa, con i bambini, con gli ammalati e tutto il resto- posso permettermi di stare qui all’alba del 25 dicembre a scriverle, non senza averle prima rivolto i miei auguri.

E’ consolante che nella sua Agenda lei abbia parlato di noi donne, e lo abbia fatto evitando l’ottocentesca locuzione “questione femminile”: perché in questo Paese, si sa, la questione è tutta e pervicacemente maschile. E che abbia riferito quel famoso dato espresso dalla Banca d’Italia, secondo la quale, come lei ha detto, “se raggiungessimo il traguardo fissato dal Trattato di Lisbona – un’occupazione femminile al 60 per cento – il nostro Prodotto interno lordo aumenterebbe del 7 per cento”. Molte di noi si sono chieste, in questi anni, perché questa grande opportunità non venisse colta senza esitazioni.

Anche dal suo governo in verità ci saremmo aspettate di più: speranza corroborata dal fatto che per la prima volta nella storia di questo Paese a discutere di riforma del lavoro c’erano tre donne -Fornero, Marcegaglia, Camusso- che a quel tavolo avrebbero finalmente potuto portare tutta la competenza delle donne in materia: perché da sempre e ovunque nel mondo sono le donne a lavorare di più, il lavoro è un’esperienza prevalentemente femminile, che sia una faccenda da uomini è solo un trompe-l’oeil ideologico. Ma è come se di quel fatto essenziale -essere donne, con tutto il loro grande sapere – le nostre protagoniste si fossero dimenticate, come se l’avessero messo tra parentesi: capita spesso alle poche donne che riescono a entrare nella politica degli uomini. La lingua delle donne non è entrata in quella trattativa.

Sono una delle 188 firmatarie dell’appello per il ripristino della legge 188 sulle dimissioni in bianco, norma abrogata dal governo Berlusconi: pratica violenta, discriminatoria e iniqua che rappresenta perfettamente la profonda misoginia del nostro pensiero politico sul lavoro. Invece del semplice ripristino, purtroppo, si è scelta una soluzione compromissoria e incerta, che nella sostanza non cambia la situazione.

Incertezza che purtroppo ha caratterizzato tutta l’azione del suo governo in materia di lavoro femminile: scarsi incentivi all’assunzione di donne, minicongedo-paternità di soli tre giorni, nessun correttivo al gap delle retribuzioni, nessuna iniziativa a sostegno di quella flessibilità “buona” -orari elastici, telelavoro, postazioni in remoto, un riavvicinamento del tempo di lavoro al tempo di vita-, ovvero di quella dis-organizzazione del lavoro che costituirebbe una spinta potente in direzione degli obiettivi di Lisbona, e anche oltre. Con tutto il bene che al raggiungimento di questi obiettivi conseguirebbe: quell’aumento di natalità da lei stesso auspicato -le donne fanno bambini quando hanno un lavoro e non, altro trompe-l’oeil, quando sono costrette a casa-, una domanda indotta di servizi, ovvero altri posti di lavoro, una maggiore autonomia femminile e una riduzione della violenza sessista -non c’è nulla che metta a rischio una donna come il dover dipendere da un uomo-, un’immediata modernizzazione del Paese, apportata dall’irruzione dello sguardo femminile sul bene comune.

Il taglio dei servizi è stato il colpo di grazia: vero welfare vivente, in prima linea sul fronte dell’assistenza e della cura nell’ultimo anno, quello del suo governo, siamo precipitate dal 74° all’80° posto nel Global Gender Gap Report stilato annualmente dal World Economic Forum. In assenza di servizi efficaci -servizi per la famiglia, non per le donne, che si trovano semmai costrette a surrogarli- l’innalzamento dell’età pensionabile è stata una vera mannaia. Quelli tra i 60 e i 65 rischiano di essere gli anni più faticosi in assoluto per la vita di una donna: che mentre lavora, se la fortuna di un lavoro ce l’ha, potrebbe ritrovarsi a dover accudire figli adulti ma ancora privi di reddito certo, e quindi costretti a restare nella famiglia d’origine, nipoti -i servizi per l’infanzia sono insufficienti e costosi- e dato l’allungamento della speranza di vita, uno o magari entrambi i genitori. Sempre che la salute l’assista.

A quanto pare, caro Presidente Monti, porre con decisione le donne al centro della sua Agenda, o di qualunque altra agenda politica, farne il perno di un deciso programma di riforme -non è un caso che tutti i mali del Diciassettennio berlusconiano si lascino perfettamente rappresentare da un corpo di donna umiliato e degradato- costituirebbe la panacea per quasi ogni nostro male.

Con la fiducia nel fatto che da doveroso punto programmatico la condizione delle donne in questo Paese passi a essere la stella polare dell’azione del futuro governo, chiunque sarà chiamato a guidarlo -e con tante donne in squadra, speriamo- le rinnovo i miei più sinceri auguri di Buon Natale e felice anno nuovo.

Donne e Uomini, Politica, questione maschile Dicembre 3, 2012

+Asili nido = +27% di Pil. Parla Ohlsson

Brigitta Ohlsson, 37 anni, ministra svedese per i rapporti con la Ue

La nostra misoginia costa cara molto cara all’Europa.

Perché “se in Europa le donne lavorassero quanto gli uomini, il Pil della Ue farebbe registrare un incremento del 27%“. Lo dice Birgitta Ohlsson, ministro svedese per i rapporti con la Ue, in un discorso pubblicato da “Il Fatto” (che ringrazio) di una linearità e di una chiarezza quasi commovente. Se la nostra politica non farà capitare qualcosa su questo fronte, e se le donne di questo Paese non lo faranno saltare in aria, possiamo sempre sperare di essere invasi dalla Svezia.

Riproduco qui il discorso di Ohlsson senza aggiungere una parola (salvo una precisazione sull’Italia) a cominciare dal suo folgorante attacco. Ascoltatela.

Oggi sono qui come ministro svedese, ma anche come femminista e come madre. Se in Svezia non esistesse un sistema di assistenza all’infanzia di elevatissima qualità, probabilmente oggi non potrei fare il ministro. La rivoluzione ha avuto inizio nel mio Paese con la generazione di mia madre: le donne nate negli anni ’40 riempirono le aule universitarie e fecero della Svezia il primo Paese al mondo nel campo della parità tra i sessi nel lavoro e nella società.

Mi preme sottolineare che la Svezia non avrebbe mai potuto diventare il Paese guida come numero di parlamentari donne, come presenza femminile ai vertici del mondo, delle aziende, dei Consigli di amministrazione e delle università senza un sistema di assistenza all’infanzia finanziato dal welfare e aperto a tutti i cittadini.

Il 26 agosto 1971 la femminista e giornalista americana Gloria Steinem scrisse sul “New York Times”: “Moltissimi bambini americani soffrono per una eccessiva presenza della madre e una insufficiente presenza del padre”: Ancora oggi per la maggior parte dei politici europei genitorialità è sinonimo di maternità. Il dramma è che molte donne non possono lavorare perché completamente assorbite dalla cura dei figli. In Europa le donne sono mediamente più istruite degli uomini, eppure solo il 60 per cento lavora (le darò una notizia sconvolgente, signora Ohlsson: in Italia siamo al 47,2 per cento, nella fascia 20-25 anni siamo al 29 per cento, e nessuno fa una piega! ndr). Da noi in Svezia lavora il 77 per cento circa delle donne.

Il fatto è che bisogna capire che la diseguaglianza di genere ha un prezzo economico per i singoli Paesi e per l’Unione Europea nel suo complesso. Certo, la discriminazione sessuale è un fatto culturale, ma sarebbe un grave errore sottovalutare l’impatto che su questa realtà possono avere misure legislative studiate per mettere le donne in condizione di occupare il posto che meritano nella società.

Se in Europa le donne lavorassero quanto gli uomini, il Pil della Ue farebbe registrare un incremento del 27 per cento, stando a una ricerca condotta dall”Università svedese di Umea. A mio giudizio non bisogna intervenire con provvedimenti adottati dalle istituzioni della Ue, ma ciascun Paese deve compiere un proprio percorso partendo dal riconoscimento del rapporto esistente tra assistenza all’infanzia e crescita economica.

In Svezia, già da molto tempo, il congedo parentale viene concesso tanto ai papà quanto alle mamme e le conseguenze sono state positive sotto tutti i punti di vista: è diminuito il divario tra uomini e donne, è migliorata l’armonia all’interno della coppia, è diventato più solido il rapporto affettivo dei padri con i loro figli.

Le pari opportunità tra uomini e donne sono una delle grandi sfide dell’Unione Europea. La Svezia in questo campo è un Paese all’avanguardia. Il modello di assistenza all’infanzia esistente in Svezia è un modello esportabile in tutta Europa. Sono convinta che il giorno in cui questa sfida sarà stata vinta in tutta Europa il nostro continente conoscerà una stagione di prosperità e benessere senza precedenti”.

Corpo-anima, Donne e Uomini, Politica, salute Luglio 5, 2012

Spending Review: quanto costa a noi donne

La chiusura di quasi 150 piccoli ospedali, da Conegliano a Iglesias, e la diminuzione dei posti letto, misure contenute nella spending review del governo Monti, tra le molte conseguenze avranno questa, come sempre sottostimata, anzi totalmente ignorata dagli analisti e dai media: che noi donne dovremo lavorare di più. Se le possibilità di ricovero si ridurranno, toccherà essenzialmente a noi farci carico della quota supplementare di lavoro di cura che si rende necessaria quando c’è un malato in casa.

Questo significa che avremo ancora meno tempo per tutto il resto. Che aumenterà il numero di quelle che il lavoro non lo cercano più. Che di conseguenza la natalità non crescerà: il tasso di nascite ha una correlazione positiva con il tasso di occupazione. Che non crescendo l’occupazione femminile, non crescerà corrispettivamente nemmeno il Pil. Che occuparsi di cose come la politica, figuriamoci! con sofferenza per il Paese, costantemente privato di metà del doppio sguardo. Che si cronicizzerà la nostra condizione di welfare vivente. Che a nostra volta ci ammaleremo di più, sotto un peso sempre più mostruoso e sempre meno condiviso: non esistono più le grandi famiglie, non c’è la possibilità di distribuire il carico, compreso quello psicologico, sempre più spesso sei da sola. Con conseguente possibile aggravio della spesa sanitaria.

Questo per dire che in un Paese come il nostro i provvedimenti del governo non pesano allo stesso modo sui due sessi, e quando si varano occorre valutarne attentamente l’impatto anche dal punto di vista del genere.

Sarebbe compito della ministra per le Pari Opportunità Elsa Fornero.

 

Donne e Uomini, economics, lavoro, Politica Marzo 21, 2012

La solitudine di Susanna

Non vorrei essere Susanna Camusso. Sento il peso enorme della responsabilità che ha sulle spalle, dopo la giornata di ieri, che a quanto pare ha sancito la fine della concertazione, insieme a quella dell’articolo 18, e sta mettendo a dura prova l’unità sindacale,

L’altro giorno Emma Marcegaglia diceva agli industriali che le era stato affidato quel ruolo proprio nel momento più difficile. Credo che Susanna Camusso possa dire la stessa cosa. Almeno in questo saranno d’accordo.

Intervendo ieri sera a Linea notte su RaiTre, dicevo che alle imprese è stato dato molto, con questa riforma; ora tocca loro restituire in investimenti e occupazione. Vedremo. Quel che è certo, la questione dell’articolo 18 è stata il focus. Quello era il muro che si doveva abbattere. Il resto ha il sapore di un contorno.

Ho detto ieri sera che si è parlato di entrata nel lavoro (un po’) e di uscita (moltissimo). Di decollo e di atterraggio. Ma del volo, di quello che c’è in mezzo, che poi è la nostra vita non separabile dal lavoro, si è parlato pochissimo. Intendendo con questo l’organizzazione del lavoro, inchiodata a tempi, modi e orari vecchi un secolo, una struttura militare fatta di gerarchie e di detenzione dei corpi, evidentemente costosissima -per tutti, aziende comprese- e improduttiva.

Mettere le donne al centro di questa riforma del lavoro significava soprattutto questo: parlare di organizzazione del lavoro, e cambiarla. Molto più che insistere sull’abbinata lavoro-welfare e sulla solita  improbabile conciliazione, strumento ormai inservibile. E del resto non si è fatto nemmeno questo minimo. Le misure di defiscalizzazione conteranno molto poco per l’occupazione femminile, e di servizi ce n’è sempre meno.

Quando si parla di lavoro si continua a pensare ai lavoratori maschi, e la “questione” del lavoro femminile è sempre assunta dopo, e a latere, come osservava giustamente Maurizio Ferrera sul Corriere della Sera, quando tutte le analisi, compresa quella della Banca d’Italia, concordano sul fatto che metterla al centro apporterebbe benefici (+8-10 per cento di Pil) a tutto il Paese.

L’occasione è stata mancata. Paradossalmente, proprio quando erano tre donne in prima linea a discutere e decidere. Ma la lingua delle donne non è entrata in questa trattativa. Continueremo a lavorare come prima, peggio di prima, sentendo la lama sul collo, regressivamente in difensiva. Siamo finalmente europei: meno tutele per tutti. Non lo siamo quanto a qualità e quantità dei servizi, e quanto a livello degli stipendi non parliamone. Problemi che noi donne -nessun aiuto, stipendi e pensioni più bassi, una società ferocemente maschilista che ci scarica tutto addosso- sentiremo in modo molto più acuto.

Del resto favorire l’occupazione femminile significa lasciare sguarnito quel welfare vivente quotidianamente e silenziosamente erogato, una risorsa che non conosce crisi, e dover investire soldi pubblici in servizi… No, meglio che stiamo a casa, come si faceva una volta. Molto più comodo per tutti.

Dipendesse da me, per come sono fatta io, scenderei in piazza ora, subito, così come mi trovo, mollando ogni altra occupazione.

Sento la solitudine di Susanna, che non può nemmeno contare sulla sponda parlamentare di un Pd  incerto, lacerato, in irreversibile crisi identitaria.

Non so come andrà a finire. So che abbiamo cominciato molto male.

 

Donne e Uomini, esperienze, lavoro, Politica Marzo 15, 2012

Tutte ai Tavoli! (ma il bilancio?)

Le proposte elaborate sono molte e interessanti, ma la novità più importante costituita dai partecipatissimi Tavoli delle cittadine milanesi, a cui il Comune di Milano si è aperto come una “casa comune”, sta nel metodo: ovvero nel fatto che sono le istituzioni, qui in particolare rappresentate dalle consigliere Anita Sonego e Marilisa D’Amico, a chiedere alle donne della città di portare all’interno della politica “seconda” le pratiche, le esperienze e i modi della politica prima, prossima alla vita, alle relazioni e ai bisogni. E nel fatto che le cittadine si siano riunite per portare in dono ai vari assessorati competenti il loro sapere e i loro desideri.

Non si tratta cioè di una contrattazione -le cittadine che chiedono alle istituzioni- ma di uno scambio all’insegna della gratuità e della permeabilità tra governo e governat*. Di una politica che si muove e si baricentra sempre più fuori dalle istituzioni, alle quali è chiesto di accoglierla, di valorizzarla, di farsene mediatrici riducendo gli ostacoli. Nel caso delle donne, questo scambio in direzione di una “democrazia partecipata” sembra funzionare particolarmente bene.

Numerose le proposte elaborate e presentate ieri sera.

Lavoro/welfare: per dirne alcune, una conferenza sul lavoro delle donne a Milano; il curriculum anonimo (che non indichi sesso, età e nazionalità); progetto coworking; album comunale baby sitter; congedo obbligatorio di tre giorni per i neopapà per i dipendenti comunali; “nidi” flessibili.

Salute: oltre a un progetto sulla violenza sessista, le “Giardiniere” (così si sono chiamate) promuovono un’idea di salute che non coincida con le prestazioni sanitarie, ma abbia al suo centro modello di sviluppo; un’indagine conoscitiva sui consultori

Spazi: istituzione di una Casa delle donne.

Proposte ottime, buone e meno buone (ognuna avrà il suo punto di vista: per esempio a me l’idea di una Casa delle donne appare un po’ regressiva) ma all’insegna del metodo innovativo che dicevamo.

Che tuttavia dovrebbe applicarsi anche ad altre questioni rilevanti per la città: è un peccato, ad esempio, che le cittadine non esprimano il loro punto di vista su questioni come la vendita di Sea e il bilancio, alle quali la politica degli uomini (ieri sera sostanzialmente assenti, salvo il presidente del Consiglio Comunale Basilio Rizzo) sta riservando la sua attenzione prioritaria.

Mi pare che di bilancio le donne si intendano parecchio. Anche questa competenza va messa alla prova. 

 

Donne e Uomini, esperienze, Politica, TEMPI MODERNI Marzo 3, 2012

Famiglia senza

"Rocco e i suoi fratelli", dalla mostra "Famiglia all'italiana". A Milano, Palazzo Reale

 

Si è aperta questa settimana a Milano, Palazzo Reale, la mostra “Famiglia all’italiana”: la sua evoluzione raccontata dalla immagini del nostro cinema, da “I bambini ci guardano” di Vittorio De Sica, al neorealismo, fino a”Quando la notte” di Cristina Comencini.

Insomma: che cos’è la famiglia, in questo Paese?

Quando era una ragazzina mi avevano assicurato che era “schizofrenogena” (Ronald D. Laing), e io ci avevo fermamente creduto, praticando la mia fede. L’avevo anche studiato all’università, se non sbaglio. Chi ha la mia età sa di che cosa sto parlando.

Poi ho visto tanti amici, gente come me, che quatti-quatti una famiglia se la sono fatta. Disertori. Traditori. Codardi.

Si sono messi insieme, hanno fatto dei figli, si sono sposati –e per una buona metà hanno divorziato-.

Alla fine ho ceduto anch’io. Ho la mia famiglia. Tanta fatica, quella sì, ma schizofrenia al momento non mi pare.

Oggi le cose sono diverse. Ma resta in sottofondo l’idea che la famiglia, se non schizofrenogena, sia un residuo del passato, un istituto arcaico a cui ci si rassegna giusto per evitare di restare soli.

Che sia qualcosa di antimoderno, un freno al progresso e alla maturità civile.

E’ un senso che ho sentito vagamente risuonare anche nelle parole della ministra Anna Maria Cancellieri, quando ha invitato i giovani a staccarsi “da mamma e papà” e a fare i bagagli.

Come se quell’attaccamento fosse una remora, un impedimento alla crescita, il nucleo di un’italianità d’antan che non vuole cedere al luminoso West dell’Individuo.

Il mio unico figlio non lo vorrei a Shanghai o in India o chissà dove, e mi sento quasi una disfattista. 

Bisogna che sulla famiglia ci mettiamo d’accordo, perché semmai oggi sono le politiche – o meglio, le non politiche- sulla famiglia a essere schizofrenogene.

Si piange, ad esempio, sulla denatalità. Ma se ti azzardi a fare un bambino sei quasi una luddista, una vera incosciente,

e se possono –e possono sempre di più- ti cacciano dal posto di lavoro.

Quanto a sostegni, aiuti, servizi: zero. Ma se il welfare non esiste, ci dovrà pure essere qualcosa che fa da rete di protezione: una famiglia? che cosa dite? Il cane si morde la coda.

Nel frattempo il 65.4 per cento degli italiani pensa che la famiglia sia la nostra struttura fondamentale (rapporto Censis 2011). Si può dargli torto? In mancanza d’altro almeno quel punto fermo, alla portata di tutti.

Puoi anche metterci su in caso di necessità, una di quelle piccole o medie imprese così importanti per la nostra economia,   

A giugno il Papa sarà a Milano per il Forum mondiale delle famiglie.

Anche per i non-cattolici potrebbe essere l’occasione per una riflessione sul tema.

Donne e Uomini, economics, Politica Febbraio 27, 2012

I salari più bassi, i nervi più saldi. E le donne

Se la notizia Eurostat che lo stipendio medio annuo dei lavoratori italiani è tra i più bassi d’Europa (23.406 euro contro i 48.914 di un lavoratore del Lussemburgo, i 44.412 di un  olandese, i 41.00 di un tedesco, i 40.698 di un belga) è uno schiaffo in faccia, l’altra notizia, che i manager italiani guadagnano più di tutti i loro colleghi europei (2,15 milioni di euro, a fronte di una media europea di1,82 milioni) è l’uppercut definitivo.

Riassumendo: gli stipendi più bassi -nemmeno la Grecia-le bollette più alte, gli alti tassi di disoccupazione, il precariato selvaggio, i servizi più scarsi, le tasse a mille, i costi della politica tra i più onerosi, i capi che guadagnano non 10 ma 100 volte più di te -un’oligarchia di vecchi maschi avidi- e l’art. 18 che “non è più un tabù”.

Come facciamo, non si sa. Anzi, si sa. E’ la tenuta delle nostre famiglie, che ci permette di andare avanti. Ed è la fatica immane delle donne, a tenerle in piedi.

La vera notizia sono i nostri nervi saldi, la nostra mitezza, la nostra capacità di sopportare, di incassare, di tamponare, di surrogare, di arrangiarci, di metterci una pezza.

Ma per quanto ancora ci si può contare?

Aggiungo a quello che ho scritto di getto stamattina: le soggette del cambiamento siamo noi. Siamo noi che -in massa critica, che per me non è meno del 50 per cento- possiamo cambiare i partiti, la politica, e quindi il Paese. Perché siamo noi che lo stiamo tenendo su con la nostra abnegazione e che stiamo pagando il prezzo più alto.

Il mio punto di vista è che per l’anno in corso, fino alle prossime elezioni politiche, dobbiamo concentrarci massimamente su questo obiettivo, mettendo tra parentesi il resto. Che non dobbiamo più disperderci in mille rivoli e mille obiettivi. Perché solo da quel cambiamento potranno discendere tutti gli altri: lavoro, welfare, diritti, un’economia più giusta, un Paese meno infelice.

Il tema principe, perciò, per me è questo: la rappresentanza politica: ci ho scritto un libro che uscirà la settimana prossima. Insieme a quello della rappresentazione delle donne, arma letale che serve a infiacchirci e a indebolirci (e su cui ha lavorato soprattutto una di noi, Lorella Zanardo, che riposto qui). Rappresentanza/rappresentazione, i due temi strettamente interconnessi, a cui voglio dedicare le mie migliori energie, coordinandomi strettamente con altre che condividono questo punto di vista.

Qui Lorella Zanardo

http://www.ilcorpodelledonne.net/?p=10016

 

AMARE GLI ALTRI, Donne e Uomini, Politica Febbraio 9, 2012

Mancanza di cura

Ho in casa gradita ospite la mia vecchia mamma. Un po’ di febbre, niente di drammatico. Per la mia vecchia zia di Venezia, invece, messa maluccio, non posso fare granché, a meno di non portarmela qui. Ordinari problemi di gente della mia età, con la fortuna di avere ancora qualche qualche vecchio intorno, e anche di poter pagare qualcuno che la aiuti ad aiutarli.

Sul Corriere di oggi Gianantonio Stella si occupa del taglio ai fondi per il sostegno ai disabili. L’argomento dei falsi invalidi è debole: di disabili veri ce ne sono tanti. Tutti sperimentiamo la disabilità, in qualche momento della vita, la nostra e quella di chi amiamo. C’è gente a cui tocca sperimentarla vita natural durante.

Quando si dice che le famiglie devono farsene carico, economicamente e psicologicamente, fino al burn out, vorrei che si intendesse soprattutto le donne. Intendiamoci: conosco molti uomini che si occupano dei loro cari in difficoltà. Ma la disabilità ordinaria, chiamiamola così, quella di un bambino che ha bisogno di cure per crescere, quella di un vecchio o che da solo non può farcela, è affidata alle donne, che nel lavoro della cura sono molto brave.

Ora, a tutto questo il governo non sta prestando sufficiente attenzione. Di più: taglia. Io non credo affatto a un modello in cui la gestione della disabilità sia affidata alle istituzioni: per dirne una, nel nostro paese tendiamo a ricorrere agli ospizi come extrema ratio, e questo a mio parere è un bene assoluto. Credo però a un modello in cui il tema della cura sia posto al centro delle politiche, come sta al centro delle relazioni umane. Perché senza cura tutto appassisce.

Individuando tutti gli strumenti, massimamente flessibili, che possano consentire alle famiglie -leggi: donne- di tenere insieme il tessuto degli affetti senza sacrificare del tutto le loro vite: una quota di sacrificio tocca e va accettata.

Ecco, su questo fronte non vedo proprio niente di nuovo.