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fabiana luzzi

Donne e Uomini, esperienze, femminicidio Maggio 29, 2013

Le calabresi che vogliono restare

La redazione di “Fimmina Tv” a Roccella Jonica

 

Sapete qual è la regione italiana che nel 2012 ha registrato il maggior numero di femminicidi? La Lombardia, con 19 casi.

No, questa non è una buona notizia. La buona notizia, semmai, è che ieri la Camera ha sancito l’adesione dell’Italia alla Convenzione di Istanbul contro la violenza sessista e il femminicidio, e lo ha fatto all’unanimità. La mobilitazione delle donne, e quella di molti uomini di buona volontà, ha condotto a questo primo importante risultato.
Ma di notizia confortante ce n’è un’altra. Poche ore dopo la morte straziante della giovanissima Fabiana Luzzi, accoltellata e bruciata viva dal fidanzato a Corigliano Calabro, il “Corriere” ha pubblicato la lettera di Francesca Chaouqui, trentenne direttora delle relazioni esterne di una multinazionale a Milano, nata in Calabria e fuggita da quella terra dove «sono poche quelle che restano, poche quelle che amano liberamente, poche quelle che hanno compagni che le considerano loro pari in ogni cosa».
La lettera di Chaouqui e altri commenti sul “tribalismo calabrese” hanno provocato la reazione di molte donne di quella regione che, a quanto pare, di lì invece non se ne vogliono andare (i sociologi parlano di “restanza”), che lì vogliono costruire liberamente la loro esistenza e non si riconoscono affatto in quel ritratto privo di speranza.
Scrive Raffaella Rinaldis, direttora di Fimmina Tv, emittente tutta femminile di Roccella Jonica:

«Pensavo che morire una volta fosse già abbastanza, ma credo che la brama di sangue non freni nessuno, dobbiamo far morire una ragazzina due volte e con lei tutte le ragazze meridionali, descritte come povere vittime di un sistema becero. (…) Mi ritrovo spiazzata, annichilita davanti ad un susseguirsi di luoghi comuni, di aggressioni malcelate da parte di persone che hanno toccato la terra calabra ma forse non l’hanno mai vista davvero. La verità è che si, esistono aree della regione e soprattutto fasce sociali degradate dove accade che una ragazzina venga promessa in sposa ad un mafioso, o che passi dalla proprietà del padre a quella del marito, è vero che ci sono ragazze che non possono andare a scuola anche volendolo. La verità, però, è che queste ragazze sono pochissime e stanno diminuendo sempre di più; la verità è che la stragrande maggioranza delle ragazze calabresi è indipendente, libera, con i mille problemi tipici della ragazzine di qualsiasi altra parte d’Italia; ragazze magnifiche, buttate nel degrado dalla faciloneria, quanto è potente l’arma della penna! E quanto se ne approfitta! La verità è che nessuno si deve permettere di parlare delle donne calabresi se non le donne calabresi! La verità è che se la società calabrese non viene raccontata nella sua realtà come possiamo pretendere di aiutare i ragazzi e le ragazze a fare un passo ulteriore? A comprendere l’orrore di un gesto disumano e a cercare cosa non va nel sistema sociale che ha portato a questo? La verità è che il male sociale più orribile è la discriminazione»

Sul blog “daSud” l’invito è a non semplificare:

«Alcuni neurologi e psichiatri intervistati in trasmissioni televisive e radiofoniche hanno interpretato il gesto del fidanzato come un atto di violenza intriso di “tribalismo calabrese”, così alcuni articoli di giornalisti e opinionisti si sono concentrati sulla componente “mafiosa” della cultura calabrese. Come è successo nei confronti di migranti, anche nel caso di Fabiana la violenza di genere rischia di essere utilizzata per costruire discorsi pubblici che insistono sulla minaccia incombente della diversità e dell’inferiorità culturale.(…) Violenza originata dall’alterità calabrese, portatrice di una cultura arretrata e subalterna. (…) Nel nostro Paese le donne muoiono perché donne, indipendentemente dalla razza, dall’etnia e dalla cultura dell’uomo violento».

E ancora, Josephine Condemi, giovanissima e brillante giornalista reggina, che scrive:

«Non so spiegare la regione in cui sono nata e vivo, la Calabria. E quando qualcuno me lo chiede, più o meno incuriosito, mi sento come una rappresentante indigena chiamata a testimoniare. (…). La domanda del giorno è se la Calabria sia maschilista o matriarcale. A rotazione seguono: omertà o denuncia? Stato o mafia? E così via. A me non viene di chiedere a un milanese: “com’è Milano?”. Perché la rappresentazione sembra così univoca, limpida, la definizione così scontata. Lo stereotipo raramente viene messo in discussione. E invece la Calabria no. La Calabria resta sconosciuta. E non so perché. Abbiamo così bisogno di un esotico su cui fantasticare?  E’ normale che una nazione si interroghi in un caso come quello di Fabiana Luzzi. Ma è meno normale, secondo me, voler scaricare tutte le colpe sul contesto. E’ una giustificazione sempre troppo facile. E’ successo perché è lì. Perché non sono come “noi”. (…)  Dai, che se scappi ti salvi. Chi parte, chi resta. La Calabria ha un problema di identità, e rispecchia in maniera più o meno deformata, come tutte le frontiere, la nazione in cui è inserita. In Calabria la logica binaria non regge. Non è mai tutto bianco o tutto nero, ma neanche tutto grigio. La Calabria, terra di emigrazione e di immigrazione, è un crogiuolo di identità che si stanno reinventando.  Se ne discute sempre più spesso, qui a Sud, guardando l’Italia sottosopra. Anche di recente, in occasione della Regione Ospite al Salone del Libro di Torino, ci si è interrogati sugli stereotipi accettati o negoziati. L’emigrazione meridionale, come hanno documentato i ragazzi di LiberaReggioLab, ha ripreso i ritmi del dopoguerra. Io non so perché non se ne parla. (…)  Non dovrebbero esserci sfumature. E invece ci sono. Se la Calabria fosse solo patriarcale non ci sarebbero le donne a tenere le fila delle relazioni fondamentali (affettive e non solo). Se la Calabria fosse solo matriarcale ci sarebbero meno uomini ad occupare lo spazio pubblico. E quindi, la logica binaria non regge. L’identità è negoziazione delle differenze. Quando cominciano a essere percepite solo come minacce da tenere sotto controllo, abbiamo un problema. Adesso, sottosopra, guardate l’Italia».

La buona notizia è in questo attaccamento e questo amore, da cui non può che venire molto bene. La buona notizia è questa abbondante libertà femminile, che può fare del Sud il baricentro della rinascita.

(pubblicato anche dal blog “Buone notizie” del Corriere della Sera)

Donne e Uomini, femminicidio, media, questione maschile Maggio 28, 2013

Fabiana: la “rabbia sfogata” del povero assassino

Sulla straziante vicenda di Corigliano Calabro, Fabiana Luzzi, 15 anni, accoltellata e bruciata viva da un femminicida di 17, leggo sulla Stampa.it un resoconto esemplare.

“…. Il ragazzo, che ha indicato ai militari in luogo della tragedia, ha spiegato d’essere andato a prendere Fabiana all’uscita di scuola col suo scooter venerdì mattina poco dopo le 13.30, per chiarire l’ennesima lite legata a gelosie da adolescenti. Lei non voleva salire, ma alla fine s’è convinta di fronte alle sue insistenze. Un gesto di buon cuore che le è costato la vita. Si sarebbero poi appartati in località Chiubbica di Corigliano, cominciando a discutere. Ma presto il dialogo si sarebbe acceso, coi due che si sarebbero rinfacciati delle piccole infedeltà. Il presunto omicida ha raccontato che Fabiana lo avrebbe offeso, accendendo la sua rabbia sfogata (1).   Dopo averla colpita con un coltello, sarebbe poi salito sullo scooter, ormai in stato confusionale (2),   lasciandola tra l’erba alta e i rovi della campagna alla periferia della cittadina. In questo frangente un’amica di Fabiana l’avrebbe incontrato e lui, forse per crearsi un alibi (3)   le avrebbe chiesto se avesse visto la quindicenne. Ma la compagna le ha risposto osservando che era andata via da scuola assieme a lui. Ormai completamente incapace di muoversi con raziocinio, il giovane, almeno così hanno ricostruito gli inquirenti, avrebbe deciso di tornare in contrada Chiubbica per chiudere definitivamente il dramma con un epilogo agghiacciante. Così, per strada, si sarebbe fermato a prendere un po’ di benzina. (4)   Quando s’è trovato nuovamente di fronte a Fabiana, la ragazzina era agonizzante ma ancora viva“.

1. “Fabiana lo avrebbe offeso, accendendo la sua rabbia sfogata”. Insomma, a un certo punto lei lo ha provocato, accendendo la sua “rabbia sfogata”. Non era lei, ragazza “di buon cuore” ad essere stata provocata, costretta a un appuntamento che non avrebbe voluto. La rabbia semmai era di lui, che aveva dovuto lottare di fronte all’iniziale rifiuto della ragazza. E in quanto tale subito “sfogata”, come una scarica irresistibile e immediata. Rabbia e sfogo fanno un tutt’uno.

2. Dopo averla colpita con un coltello, sarebbe poi salito sullo scooter, ormai in stato confusionale: quindi il femminicida, dopo lo “sfogo” (una ventina di coltellate, che richiedono un certo tempo e una certa lotta), rimonta sconvolto in moto e si allontana, lasciandola ad agonizzare tra i rovi.

3. Un’amica di Fabiana l’avrebbe incontrato e lui, forse per crearsi un alibi, le avrebbe chiesto se avesse visto la quindicenne. Insomma: il femminicida è sconvolto, ma non al punto tale di non tentare immediatamente di precostituirsi un alibi, il che comporta un certo grado di lucidità, anche se la ragazza che “ama” (mi scuso per il termine) sta morendo in un prato. Incontra un’amica di Fabiana e controllando perfettamente le sue emozioni le chiede notizie di lei, elaborando all’impronta un piano e mettendolo in atto subito.

4. Ormai completamente incapace di muoversi con raziocinio, il femminicida va in cerca di benzina. Vediamo: il femminicida pensa che la ragazza sta morendo nel prato dove l’ha colpita con venti coltellate, anzi probabilmente è già morta. Dopo aver fatto finta con l’amica di non sapere dove fosse Fabiana, pensa a far sparire il suo corpo, e la cosa più logica da fare è bruciarlo. E il modo più semplice per bruciarlo è cospargerlo di benzina e dargli fuoco. Quindi è con il massimo del raziocinio che, si suppone, va a cercare una tanica, quindi si avvia dal benzinaio, la riempie, paga, rimette in moto lo scooter, torna nel campo dove immagina di trovare Fabiana morta. Peccato che lei è ancora viva, e che lotta con le poche forze che le sono rimaste per evitare la fine che fa in tempo a intuire. Ma lui ha deciso che Fabiana deve essere morta, e procede lucidamente e senza alcun moto di pietà nel mettere in atto il suo disegno orribile.

Il testo giornalistico -non firmato- che ho analizzato è esemplare perché rivela un pensiero inconscio diffuso e molto attivo: l’idea che quando una donna viene ammazzata da un uomo, una spiegazione logica deve sempre esserci (per esempio, una provocazione, a innescare la miccia del discontrollo maschile, presentato come un dato di natura, e in quanto tale immodificabile); e che quando un uomo uccide una donna, compie il suo gesto preda di un’estasi demoniaca, di una confusione malefica, il famoso “raptus”, un impossessamento diabolico che, a quanto pare, può durare anche un’oretta o due, e ammette comunque pause raziocinanti durante le quali il “rapito” può preconfezionare un abbozzo di alibi, e procurarsi tutto quello che serve per portare a termine l’impresa delittuosa, salvo tornare preda del “raptus” alla vista della vittima ancora agonizzante.

C’è insomma una volontà inconscia di giustificazione e quasi di perdono del femminicida che non si verifica in nessun altro caso di brutale omicidio. In ultima analisi, l’attribuzione alla donna di una colpa atavica: quella, forse, di imprigionare l’uomo nel desiderio, di attentare al suo ordine rammentandogli la sua dipendenza e la sua bisognosità. Il rischio di essere chiamate a pagare questa colpa è sempre molto alto.

Un altro testo esemplare lo trovate analizzato qui.

p.s. preciso che in entrambi i casi si tratta di analisi di testi, non di profili dell’assassino, per realizzare i quali non ho titoli.