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Femminismo

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bambini, diritti, Donne e Uomini, Femminismo, questione maschile Gennaio 21, 2016

Figli per soli uomini (etero)

Steven Harris, single etero newyorkese, con il figlio Ben, nato da utero in affitto

Martedì 26 gennaio alle 18 alla Libreria delle Donne di Milano (via Pietro Calvi) discuterò di utero in affitto o Gpa con Luisa Muraro e Daniela Danna.

In preparazione, vorrei considerare un fenomeno rimasto in ombra ma che, in particolare negli Stati Uniti, ha una consistenza crescente: uomini single eterosessuali che si fanno “produrre” un figlio tutto per sé. Quando si parla di utero in affitto di norma si pensa a coppie etero con problemi di infertilità e a singoli o coppie gay. C’è invece anche la possibilità che a comprare un ovocita e ad affittare l’utero sia un maschio etero che non ha una compagna, o che non intende condividere con una donna l’esperienza della genitorialità.

Steven Harris, avvocato newyorkese 57enne, è il genitore esclusivo di Ben, 5 anni, nato da una madre surrogata. Intervistato da Abc News, Harris ha spiegato di aver cercato una moglie per vent’anni, ma di non aver mai incontrato la donna giusta. Ciononostante voleva una famiglia. Desiderava avere dei figli ma non aveva nessuna con cui farli, e 15 anni fa è precipitato in una profonda tristezza. “Sentivo” dice “ che stavo perdendo qualcosa. Così ha deciso di diventare padre “in proprio” tramite surrogacy, usando il proprio seme e l’ovocita di una donatrice.

Storia simile quella del bostoniano Peter Gordon, che prima di ricorrere all’utero in affitto ha provato ad adottare ma, come racconta, “ho contattato 5 diverse agenzie per l’adozione, e ogni volta mi è stato detto che in quanto single la mia domanda non sarebbe stata considerata, o sarebbe finita in coda alle graduatorie”. Anche Harris ha tentato invano con l’adozione.

Stephanie Scott, direttora di Simple Surrogacy in Dallas, ha procurato la madre surrogata a Gordon: la 24enne Sara Eaton. Scott dice tra i suoi clienti aumenta la quota degli uomini etero e single: “Negli ultimi 5 anni è diventata la norma”.

Quando Harris ha annunciato la sua intenzione di ricorrere all’utero in affitto, sua madre è inorridita. “Stevie” le ha detto “Questa è la cosa peggiore che mi sia mai capitata”. Almeno finché non Harris non le ha fatto vedere il bambino, Ben, che oggi ha 5 anni. Harris lo cresce da solo, con l’aiuto di una baby sitter.

Gordon ha avuto invece 2 gemelli. Ha pagato “spese mediche” alla madre surrogata per un ammontare di 85-90 mila dollari.

Entrambi i padri sono consapevoli del fatto che dovranno dare una spiegazione ai figli riguardo alla loro situazione familiare. Harris dice che Ben ha già cominciato a fargli domande su sua madre. “Io gli spiego: ci sono vari tipi di famiglie: con 2 padri, con 2 madri, con una madre e un padre, e anche con solo il padre. Per ora la spiegazione gli basta”: Ma sia Gordon sia Harris sperano ardentemente di trovare una moglie. Gordon dice di volere ardentemente una di quelle famiglie che passeggiano nel parco, lui con un bambino per ogni mano e la moglie che spinge il passeggino. “Chi non lo vorrebbe? Per me sarebbe l’ideale”. Ma per una moglie c’è tempo. Olivia e Noah, i due gemelli, hanno solo 6 mesi, e il papà single non potrebbe essere più felice. “Ho finalmente quello che desideravo da molti anni. E’ un vero miracolo”.

Il fenomeno degli etero padri single, vera partenogenesi maschile, ha quanto meno un merito: quello di sgomberare il campo dalla questione dell’orientamento sessuale degli uomini che ricorrono a madri surrogate. E sgonfia la possibile accusa di omofobia nei riguardi di quel femminismo che lotta contro l’utero in affitto.

In questione non è l’essere gay o etero. In questione è l’essere uomini che fanno scomparire la madre. E quale legame ha questa scomparsa con le radici del patriarcato.

 

Femminismo, Politica Gennaio 14, 2016

Sbagliamo tutti. Sbaglio anch’io

Tutte e tutti sbagliamo, ma ci sono errori che continuano a bruciare e non riesci a perdonarti. Conviverci fa parte dell’adultità.

Per esempio, uno degli errori che non mi perdono è quello di aver speso un’enorme quantità di energie per sostenere la lotta politica di una donna, l’attuale senatrice Laura Puppato, già assicuratrice, sindaca di Montebelluna e consigliera regionale veneta, che lanciando il cuore oltre l’ostacolo aveva deciso di candidarsi alle primarie per la segreteria del Pd.

Mica ero la sola, intendiamoci: ci cascarono per esempio Marco Travaglio, Marco Paolini, Concita De Gregorio (non è una chiamata di correo: solo per dire che la signora era piuttosto convincente). Si spesero per lei parole grosse, tipo che era la nuova Tina Anselmi. A Milano le organizzai un parterre da regina al Circolo della Stampa, a cui parteciparono tantissime protagoniste della vita cittadina, con tanto di cortese presenza del sindaco Pisapia e consorte. Alcune amiche femministe venete avevano attivato una rete nazionale in suo sostegno. Uno dei nodi della rete ero io. Si vedeva in lei, in un paese politicamente molto misogino e arretrato, la punta di diamante di una riscossa delle donne, una possibile leader. Invece, a quanto pare, la forza delle donne veniva utiizzata solo per passare agevolmente e con i riflettori dalle istituzioni locali a quelle nazionali. Una volta dentro, nessuna significativa battaglia per le donne, rapida svestizione dai panni di leader “femminista”, disinteresse totale compensato da un maniacale impegno per ogni quisquilia veneta. E da un impressionante saltafosso sulla riforma della Costituzione.

Ora, dopo aver espugnato il Senato, si tratta come per quasi tutti di riuscire a restare a Roma –che sarà anche ladrona, ma è sempre meglio che fare l’assicuratore in Veneto-. E nell’evidente auspicio di una ricandidatura la senatrice dedica all’ex-avversario Matteo Renzi (che carinamente la chiama Tata Lucia) una performance che farebbe impallidire Apicella.

Chiedo perdono a tutte e a tutti.

 

 

Donne e Uomini, Femminismo, questione maschile Gennaio 11, 2016

Ancora su Colonia: salvare i migranti al prezzo della libertà femminile?

Manifestazione femminista a Colonia

Mi scrive una di voi commentando l’ultimo post su Colonia: “No, non lo sopporterei mai di perdere la mia libertà, nemmeno per salvare un intero popolo di rifugiati, e NO, non mi dispiaccio”.

La mia amica Nadia scrive qualcosa di molto assonante: Non ci sono uomini “buoni” o uomini “cattivi”. C’è un maschilismo occidentale al guinzaglio e un maschilismo a ruota libera che significa guai ancora peggiori per le donne. Il rischio dell’accanirsi sull’uno può significare salvare o legittimare l’altro, come se esercitare maschilismo da salotto, nel lavoro, nella scuola, nella scienza, nella ricerca, nell’arte, nelle proprie case, nei sentimenti, come se esercitare vivisezione psicologica fosse meno grave.
Ho girato il mondo con lo zaino, da sola o con amiche, affamata del mondo, ho imparato tanto da tante culture diverse, ma anche, sulla mia pelle, dove poter stare e in che modo o dove neanche poter esistere.
Il centro del discorso non è “salvare” gli immigrati a tutti i costi ma certo salvaguardare sempre le donne. Solo questo, a conti fatti, mi può riguardare.
Non voglio dare una via d’uscita al maschilismo in guanti bianchi, ma se denunciare l’evidenza di culture ancora più violente nei confronti delle donne significa essere razzista, ebbene mi assumo questa responsabilità, questa onesta consapevolezza.
Sono razzista e spietata contro ogni uomo di razza, cultura, religione, atteggiamento che solo osi offendere le donne. La sopraffazione ha un solo colore, tetro e lugubre, un solo suono, sinistro e stridente e la risposta non può’ che essere un urlo liberatorio: GIU’LE MANI DALLE DONNE!”.

Vi chiedo che cosa ne pensate, provando a estrapolare due domande dagli interventi che vi ho riportato:

  1. sareste disposte a rinunciare a una parte delle vostre libertà se questo servisse a migliorare l’accoglienza e la convivenza con migranti e profughi?
  2. o sareste invece disposte a correre, come dice Nadia, il rischio di apparire razziste per “denunciare l’esistenza di culture ancora più violente (della nostra) nei confronti delle donne”, senza anteporre la necessità di “salvare i  migranti a tutti i costi” alla salvaguardia della libertà femminile?

 Mi metto in ascolto.

 

femminicidio, Femminismo, Politica, questione maschile Dicembre 16, 2015

Colleghe della stampa estera: raccontate il business della violenza in Italia, ormai nelle mani della politica

Le donne in questo Paese non sono affatto messe bene, no.

Ci mancava pure la jattura dell’emendamento bianco rosa o rosa bianca o come diavolo l’hanno chiamato, che spazza via in un colpo solo tutto il sapere cumulato sul campo in anni e anni dai centri antiviolenza autogestiti dalle donne, quelli a cui la Convenzione di Istanbul attribuisce un ruolo preminente.

Perciò spero che le mie colleghe straniere, le corrispondenti di Libé, del Frankfurter Allgemeine Zeitung, del Guardian e del NYT possano dare una mano a questa lotta, raccontando alla fin fine quello che è: la violenza sessista in Italia è diventata un business da milioni di euro, la formazione di esperti è il core business del business, e i soldi stanziati dalla politica per affrontare la questione, la politica intende riprenderseli.

Domani in una conferenza stampa Donne in Rete contro la violenza (D.i.R.e), Udi, Casa Internazionale delle donne, Telefono Rosa, Pari e dispare, Fondazione Pangea e altre ribadiranno alla stampa estera che le donne vittime di violenza non sono minori deficienti da tutelare, ma persone –spesso ad alta scolarità e con buon reddito- da accompagnare in un percorso ogni volta diverso nei tempi e nei modi. Che devono essere loro stesse le protagoniste della propria liberazione: la libertà non è una medicina che si può inoculare. E che il ruolo delle “esperte” è quello di condividere con empatia e rispetto l’esperienza autonoma della donna che intende fuoruscire dalla violenza, mettendo a disposizione consapevolezza e strumenti.

E invece, niente: un emendamento alla legge di stabilità firmato da Fabrizia Giuliani (sempre lei, la sedicente candidata unica di Se Non Ora Quando, alla faccia di tutte quante le militanti basite, la romana piazzata da Bersani nel listino protetto a Milano dove nessuna l’ha mai vista nemmeno per sbaglio etc. etc., soprattutto una che nei centri antiviolenza non si è mai vista) parla disastrosamente di un “percorso tutela vittime di violenza” (sic!) da istituire negli ospedali. E per tutte le vittime di violenza senza distinzioni -donne, anziani, bambini, portatori di handicap e omosessuali-. Non viene quindi riconosciuta alcuna specificità alla violenza sessista, come raccomandato dalla Convenzione di Istanbul. Un disastro simbolico e reale.

Si tratta di “un percorso obbligatorio e a senso unico” dicono le donne di D.i.R.e, Udi e le altre. “Una donna che si rivolge al Pronto Soccorso sarà automaticamente costretta un tracciato rigido, senza poter decidere autonomamente come agire per uscire dalla violenza, e si troverà di fronte un magistrato o a un rappresentante della polizia giudiziaria prima ancora di poter parlare con una operatrice di un Centro Antiviolenza che la ascolti e la sostenga nelle sue libere decisioni”.

Come se le “malate” da presidiare fossero le donne, e non gli uomini violenti.

Con molteplici rischi: che pur di evitare di essere inserita nel “programma protezione”, una i suoi lividi se li tiene e all’ospedale non ci va. Inoltre chiunque si sia occupata della questione sa bene che il momento del post-denuncia è pericolosissimo per una donna, che potrebbe vedere aggravarsi la violenza. Infine i centri antiviolenza sono di fatto tagliati fuori dall’ospedalizzazione-securitarizzazione: i 50 milioni di euro promessi dalla ministra per la Salute Lorenzin per la formazione del personale dedicato all’assistenza psicologica alle vittime di violenza, usciti dalla porta rientrerebbero dalla finestra: saranno le istituzioni a gestire i fondi.

Insomma, l’emendamento Giuliani, che molte hanno chiesto invano di ritirare, è una vera catastrofe. Non per Giuliani, forse: a cui, si mormora, si sta pensando per il Ministero Pari Opportunità. Ci mancherebbe anche questa.

Colleghe della stampa estera, occhio a questa brutta storia.

 

Questo il comunicato che indice la conferenza stampa:

Settantatrè Centri Antiviolenza rappresentati dall’Associazione D.i.Re, Telefono Rosa che gestisce il numero pubblico di emergenza 1522 per la violenza contro le donne, l’Unione Donne Italiane, la Libera Università delle Donne di Milano, Ferite a Morte, la Fondazione Pangea, Be Free, Pari o Dispare, Uil invitano le giornaliste e i giornalisti il giorno 17 dicembre alle 11 alla Sala Cristallo dell’Hotel Nazionale a Montecitorio (Piazza Montecitorio 131) per annunciare le prossime azioni contro l’emendamento Giuliani detto “percorso tutela vittime di violenza” approvato il 15 dicembre dalla Commissione Bilancio della Camera:

Il “percorso tutela vittime di violenza” rappresenta un attacco alla libertà e alla sicurezza delle donne, alla cultura, all’informazione e alla consapevolezza che le associazioni femminili e femministe hanno costruito in questo paese. Il “percorso tutela vittime di violenza” assimila la violenza maschile, che colpisce una donna su tre e spesso con esiti fatali, a qualunque altra violenza su soggetti per giunta definiti “deboli”: anziani, bambini, portatori di handicap e omosessuali. Prevede una procedura che, tra ambiguità e contraddizioni, mette al centro le istituzioni e il sistema di interventi invece della consapevolezza e libertà di scelta della donna.

Vìola l’ordinamento nazionale e internazionale, innanzitutto la Convenzione di Istanbul contro la violenza sulle donne e la violenza domestica che prescrive un approccio di genere, firmato da 32 paesi, e dall’Italia fra i primi. – è solo l’ultimo grave atto contro le politiche di contrasto alla violenza, che si aggiunge alla mancata erogazione del denaro pubblico dovuto per legge ai Centri Antiviolenza.

La violenza di genere contro le donne non è una questione privata, non è una questione di sanità o di ordine pubblico, non è un affare lucroso. E’ un grave problema sociale che ha radici nella nostra cultura e va affrontato con una coerente e seria guida politico-istituzionale. Non può essere liquidato in maniera parziale, in un emendamento alla legge di stabilità già contestato da un appello pubblico e da molte parlamentari. Perché le donne non vengano più picchiate e uccise, perché migliaia di bambine e bambini non assistano più ogni giorno alla violenza domestica, abbiamo bisogno di un approccio integrato che faccia tesoro di trent’anni di esperienza sul campo e promuova una sinergia fra tutte le forze e le competenze già all’opera. E del denaro necessario per realizzare tutto questo.

Oltre alle Associazioni saranno presenti attiviste e parlamentari.

 

AGGIORNAMENTO ORE 15 DEL 17 DICEMBRE: alcuni firmatari dell’emendamento Giuliani sarebbero intenzionati a fare marcia indietro, avendo compreso di aver sottoscritto una proposta sbagliata.

 

 

 

 

diritti, Donne e Uomini, Femminismo, Politica, questione maschile Novembre 30, 2015

Giovanna Martelli, consigliera di Parità dimissionaria: “Troppa disattenzione ai temi delle donne”

Ho “litigato” spesso –rispettosamente- con Giovanna Martelli, consigliera di Parità del governo Renzi. Con rispetto anche maggiore guardo alle improvvise dimissioni dal suo incarico istituzionale nonché dal Pd (è entrata nel gruppo misto alla Camera). Da quel carro si scende malvolentieri –il flusso più cospicuo è in entrata- e dagli incarichi non si stacca mai nessuno.

Il casus belli: il 25 novembre, giornata internazionale contro la violenza sulle donne, Martelli aveva chiesto di anticipare il suo voto per l’elezione di 3 giudici della Consulta, in modo da poter partecipare a un incontro sulla violenza a Milano. Dopo un iniziale ok, il permesso viene negato via sms.

E’ la goccia che fa traboccare il vaso di una generale disattenzione sui temi delegati a Martelli: “Nel partito” dice “a queste cose si guarda con troppo sussiego. Si pensa che il 25 novembre sia solo una celebrazione retorica. Le donne del Pd mi hanno cercato solo dopo le mie dimissioni. Non esistono più le condizioni per lavorare”.

Anche se i nodi da affrontare non mancherebbero: il surplace senza fine sui diritti; i molti problemi delle donne su cui, ammette Martelli, “stiamo assistendo a veri passi indietro”: lavoro, gap salariale e pensionistico, servizi, salute, legge 194. Al governo più femminile di sempre non stanno corrispondendo, paradossalmente, passi avanti per la cittadinanza femminile.

Nella legge di stabilità (articolo 1, comma 334, gli stanziamenti per le Pari Opportunità subiscono un taglio di 2,8 milioni di euro l’anno nel triennio 2016-2018. Quindi dai 28 milioni previsti inizialmente per il 2016 (e ridotti a 25) si passerà a circa 17.500.000 nel 2018.

Preso in contropiede dalle dimissioni, il governo tenta il recupero. L’ex-consigliera alza il tiro: “Intendo porre precise condizioni”. Per esempio la re-istituzione di un Ministero per le pari opportunità?Non credo che sarebbe lo strumento più efficace” dice Martelli.

Al segnale lanciato da queste dimissioni -e alla “trattativa” che ne consegue- non stiamo prestando sufficiente attenzione.

 

 

 

 

Donne e Uomini, femminicidio, Femminismo, questione maschile Ottobre 15, 2015

No gender = diventare tutti maschi

Su un quotidiano, la pubblicità di una casa di moda (qui sopra): ragazzo e ragazza, capelli corti, vestiti in modo identico, jeans e maglione. Slogan: “This ad is gender neutral” (questa pubblicità è di genere neutrale). Qualche pagina più avanti un’altra pubblicità, ancora modella e modello vestiti in modo molto simile (giacca maschile e pantaloni). Qui l’adesione al no-gender è meno esplicita, ma il messaggio è lo stesso.

Il no-gender è up to date: l’indifferenziazione sessuale è di moda, e la moda è sempre un indizio degli umori circolanti. Forse, più semplicemente, la pubblicità sfrutta l’attualità del dibattito rovente sul gender.

Qualche mese fa, in un evento organizzato da Stefano Boeri alla Diamond Tower di Milano, centinaia di ragazze e ragazzi disegnavano la loro città futura. Alcuni sostenevano che i documenti non dovrebbero indicare il genere sessuale dei loro titolari. Non era chiaro se la proposta nascesse da un autentico bisogno o esprimesse piuttosto un bisogno indotto e la volontà di mostrarsi moderni e progressisti.

Il fatto è che questo gender neutral somiglia quasi sempre a un maschio. Magari a un maschio dai caratteri sessuali secondari depotenziati, ma pur sempre maschio. Il modello unico, funzionale alla produzione, è maschile. Se si vuole essere modernamente neutri, si deve sacrificare la femmina molto più di quanto si sacrifichi il maschio.

Le cose stanno andando come avevo previsto in un mio libro del 2007, intitolato “La scomparsa delle donne”.Il cyborg, quando ho provato a immaginarmelo” scrivevo nell’introduzione “io l’ho sempre pensato più maschio che femmina. L’approdo di tanto girovagare tra corpi e identità non dovrebbe essere quello, un maschio, ma io non ho visto altro. Forse è la mia immaginazione che ha dei limiti, ma quello che mi pare di vedere è che ciò che si stacca dal corpo diventa quasi sempre maschio”.

Un numero sempre più ampio di notizie celebra festosamente la neutralizzazione del corpo femminile: per esempio, il fatto è che ormai il congedo di maternità è una roba per lavative retrograde. E le operaie di Melfi vengono fornite di magapannolone in modo che le mestruazioni non disturbino i ritmi produttivi.

Il Sacro Graal maschile è sempre quello, da millenni: la coppa dell’utero. Bene, ci siamo quasi, come vedete. Per ora la coppa si affitta.

Si sta dibattendo in questi giorni sulla sconfitta del femminismo. “L’Espresso” ha dedicato al tema la sua ultima copertina.

Io credo che la questione sia ben altra. Il femminicidio simbolico. La scomparsa delle donne. 

Femminismo, questione maschile Ottobre 12, 2015

Le ragazze vittime di tratta: “Basta convegni, progetti e tutor. Le protagoniste della lotta siamo noi”

Isoke Aikpitanyi, ex-vittima di tratta

Tutto è business. Potrebbe esserci anche un business della lotta alla tratta. Associazioni, fondazioni, progetti finanziabili con fondi europei, eventualmente corsi di formazione. Intanto le vittime di tratta restano in strada, costrette a continuare a prostituirsi per poter mangiare il giorno dopo. Migliaia e migliaia di euro spesi in congressi e progetti mentre le ragazze sono alla fame.

Come Bose, che dalla prostituzione era uscita, costretta a rientrarvi per mantenere se stessa e i suoi bambini. Tornata in strada, Bose è stata uccisa.

Le ragazze vittime di tratta hanno deciso che le protagoniste della lotta devono essere loro stesse, con la loro faccia e la loro voce, senza l’intermediazione di enti, istituzioni o tutor. La prima è stata la nigeriana Isoke Aikpitanyi, che si è ribellata ai trafficanti ed è stata quasi uccisa. Lo ha raccontato nei suoi libri, a cominciare da “Le ragazze di Benin City. La tratta delle nuove schiave dalla Nigeria ai marciapiedi d’Italia”. E oggi gestisce in modo autonomo e autofinanziato 4 case di accoglienza in diverse città italiane. A Palermo 50 ragazze quasi tutte nigeriane hanno costituito insieme a Isoke un’associazione che dà una mano alle altre ragazze, e il 18 ottobre celebreranno la Giornata Europea contro la tratta.

“Non soltanto prendiamo parola” dice Osas, una delle portavoce del gruppo siciliano. “Abbiamo richieste e proposte perché contro la tratta non si decida e non si agisca senza di noi. E alla fin fine, contro di noi”. Aggiunge Isoke: “Adesso parliamo noi. Nessuno può farlo al posto nostro, nessuno può prendere decisioni sulla nostra testa. Noi vittime di tratta non vogliamo più essere oggetto di interventi, ma soggetto concreto della lotta”. Le ragazze chiedono di sedere ai tavoli dove si discute e si decide su tratta e prostituzione.

La Giornata del 18 sarà celebrata a Palermo, in città del Piemonte, della Lombardia, della Liguria e della Valle d’Aosta dove Isoke gestisce attività di accoglienza, e in altre città italiane con piccoli e grandi eventi proposti e realizzati direttamente dalle vittime di tratta.

Il 17 ottobre alle 17 Isoke sarà in Piazza De Ferrari a Genova insieme a tutte le associazioni anti-tratta che hanno riconosciuto in lei e nelle altre ragazze la capacità di innovare la lotta agli schiavisti.

bambini, Corpo-anima, Donne e Uomini, Femminismo, lavoro, questione maschile Settembre 28, 2015

Sempre più mamme “saltano” il congedo di maternità. Una pessima notizia: per le madri, per i bambini e per il mondo

Leggo su La 27ora l’ottimo report su maternità e lavoro: in stretta sintesi, il vecchio congedo di maternità si va estinguendo. Sempre più neo-mamme rinunciano alla “pausa-bambino” e rientrano al lavoro prima possibile. Il web è pieno di testimonial offerte come modello da seguire –ad, politiche, business women- che staccano giusto il tempo del parto per tornare alla scrivania dopo pochi giorni.

Non riesco a leggerla come una buona notizia. Per tante si tratta di fare di necessità virtù: meno ti assenti, meno rischi il posto (o per le più fortunate, la carriera). Più interessanti invece le forme di flessibilità in sostituzione del congedo: riduzione d’orario, part time.

Resto convinta che un bambino appena nato ha bisogno di stare con la mamma, e la mamma con il bambino. Si tratta di un unico organismo vivente che gradualmente diventa un due. Il momento del parto non interrompe la simbiosi –natura non facit saltus-, ne cambia semplicemente la forma. Spiega la psicologia che il processo di individuazione del nuovo nato –cioè il tempo che serve alla creatura per percepirsi come uno/a distinto dalla madre- dura ben 3 anni: i cuccioli della nostra specie sono i più lenti nell’acquisizione di autonomia. Per una lunga fase il bambino/a sente di essere la madre, com’è stato per i 9 mesi di gestazione (e in parte anche la madre “si sente” il bambino/a).

I tempi della riproduzione non cambiano in base alle esigenze della produzione: se potessero ci imporrebbero gestazioni di due mesi, o meglio ancora gravidanze extracorporee -non manca tanto-, asettiche e inodori.

Come la gran parte delle mamme sono tornata al lavoro dopo 3 mesi. Mi è mancato molto, con il senno di poi, non poter assecondare la gradualità del processo che dicevo: l’allattamento, un unico ritmo di sonno-veglia e così via. Ho perso qualcosa di importante per la mia identità, e ho fatto perdere ben di più a mio figlio.

Permettetemi di essere brutale: quando comprate un cucciolo di cane potete portarlo a casa solo dopo due mesi, quando sarà pronto ad affrontare il distacco dalla madre. Gli allevamenti più seri allungano il periodo a tre mesi. Perché non dovrebbe valere per gli esseri umani quello che vale per i cuccioli di altre specie?

Non intendo colpevolizzare le neomamme –non più di quanto colpevolizzi me stessa-, ma penso che quel tempo speciale, diverso da tutti gli altri tempi della vita, non mi sarà più restituito, e percepisco la cosa come una perdita. Soprattutto sento di aver tolto qualcosa di importante al mio bambino. A maggior ragione non posso salutare con felicità il fatto che le giovani mamme rinuncino perfino a quelle poche settimane di tempo “differente” (nel senso di occasione irripetibile per sperimentare la propria differenza femminile).

Per andare meglio, il mondo avrebbe bisogno di somigliare di più al mondo delle donne e alla coppia madre-figlio, assumendo come fondamentale e non più aggirabile il valore della cura che nella maternità trova il suo imprinting. E invece ci vogliono sempre più uguali agli uomini. L’eccesso di maschile si perpetua.

La maternità è sempre più un fastidio, un ingombro da far fuori con una guerra simbolica e reale.

Si tratta di una sconfitta radicale.

 

diritti, Femminismo, Politica, salute Settembre 12, 2015

#Save194: parla uno degli ultimi non-obiettori

Antonio Spreafico detto Nino -o anche “Sprea”-, 66 anni, è uno di quei medici che sentono intensamente il valore civico del proprio lavoro. Nel suo caso –Sprefico è ginecologo– si è trattato di stare “dalla parte delle donne”, come si diceva un tempo: non solo curarle, guarirle, accompagnarle nella gravidanza e nel parto, ma anche essere al loro fianco nella lunga e faticosa lotta per non morire più di aborto, giunta a destinazione nel 1978 con l’approvazione della legge 194.

Brianzolo, cattolico, in pensione da qualche anno, nell’agosto scorso Spreafico è stato “richiamato in servizio” dal suo ex-ospedale, il Bassini di Cinisello Balsamo, con cui collabora da volontario, perché causa-ferie del personale (compresi i rarissimi non obiettori) il servizio di Ivg non era più erogabile.

“Fare Ivg non piace a nessuno” dice “ostacola la carriera, carriera, non è scientificamente suggestivo. Ma qualcuno dovrà pur farlo”.

Gli incarichi meno gratificanti toccherebbero ai neo-assunti…

“Ma i nuovi assunti in Lombardia sono quasi tutti obiettori. I posti sono pochi, e chi obietta ha migliori chance di essere preso. Poi magari ci sono cliniche tipo San Pio X  o ospedali come il San Raffaele dove gli aborti non si fanno, ma la diagnosi prenatale, molto remunerativa, quella sì”.

Che è l’anticamera dell’aborto terapeutico, nient’altro.

“Regione Lombardia dovrebbe obbligare queste cliniche e questi ospedali a eseguire anche le interruzioni. E invece anche per gli aborti terapeutici ormai siamo al “turismo”: si va a Barcellona, come per la fecondazione assistita”.

Come mai un’obiezione così alta tra i giovani neoassunti? Si tratta di un cambiamento di sensibilità?

“Come dicevo si tratta fondamentalmente di ragioni di carriera. Tutti i primari sono obiettori, e se non obietti ti infili nel ghetto. Però sì, c’è anche un difetto di sensibilità politica. Io quando posso vado a Messa, ma non credo che il Padreterno mi condannerà: ho aiutato tante povere donne a “mandare indietro” i bambini, come diceva mia nonna. Donne anche poverissime, oggi ne vediamo tante. La pakistana a cui al momento delle dimissioni  metti in mano 10 euro perché non sa come mangiare”.

Mai momenti di burnout? Voglia di mollare tutto?

“Sempre tenuti a bada dal fatto che sai che le donne hanno bisogno di aiuto: se molli anche tu… Un po’ di fatica, forse, quando arrivano certe signore “capienti,” che magari ti fanno anche il pistolotto: sa, noi siamo contrari, ma… Ecco, lì è un po’ più complicato”.

Prima dell’approvazione della legge 194 si è parlato anche di depenalizzazione: ovvero, poter praticare l’Ivg in qualunque struttura, senza dover andare per forza in ospedale. E invece con la 194 fuori dall’ospedale l’aborto resta un reato.

“Anch’io avrei preferito la depenalizzazione: chi ha un’assicurazione o maggiori possibilità potrebbe rivolgersi al privato, senza pesare sul SSN”.

C’è clima per riparlarne?

“Non mi pare. Le donne sono lontane, i movimenti non esistono più, i partiti non intendono occuparsene… E anche le ragazze mi sembrano acquiescenti, rassegnate ad “arrangiarsi”. Ma una soluzione la dovremo trovare

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Antonio Spreafico detto Nino, o anche “Sprea”, 66 anni, è uno di quei medici che sentono intensamente il valore civico del proprio lavoro. Nel suo caso –Sprea è ginecologo- si è trattato di stare “dalla parte delle donne”, come si diceva un tempo: non solo curarle, guarirle, accompagnarle nella gravidanza e nel parto, ma anche stare al loro fianco nella lunga e faticosa lotta per non morire più di aborto, giunta a destinazione nel 1978 con l’approvazione della legge 194.

Brianzolo, cattolico e in pensione da qualche anno, nell’agosto scorso Spreafico è stato “richiamato in servizio” dal suo ex-ospedale, il Bassini di Cinisello Balsamo, con cui collabora da volontario, perché causa-ferie del personale (compresi i rarissimi non obiettori) il servizio di Ivg non era più garantito.

“Fare Ivg non piace a nessuno” dice “ostacola la carriera, carriera, non è scientificamente suggestivo. Ma qualcuno dovrà pur farlo”.

Gli incarichi meno gratificanti toccherebbero ai neo-assunti…

“Ma i nuovi assunti in Lombardia sono quasi tutti obiettori. I posti sono pochi, e chi obietta ha migliori chance di essere preso. Poi magari ci sono cliniche come San Pio X  o ospedali come il San Raffaele dove gli aborti non si fanno, ma la diagnosi prenatale sì”.

Che è  l’anticamera dell’aborto terapeutico. Altrimenti a che cosa serve?

“Ecco: perché Regione Lombardia non obbliga queste cliniche e questi ospedali a eseguire anche le interruzioni? Anche per i terapeutici siamo al turismo abortivo: si va a Barcellona, come per la fecondazione assistita”.

Un’obiezione così alta tra i “nuovi” perché è cambiata la sensibilità??

 

“Fondamentalmente per ragioni di carriera, come dicevo. Tutti i primari sono obiettori, e se non obietti ti infili nel ghetto. Però sì, c’è anche un difetto di sensibilità politica. Quando posso vado a Messa, ma non credo che il Padreterno mi condannerà: ho aiutato tante povere donne a “mandare indietro” i bambini, come diceva mia nonna. Donne anche poverissime, oggi ne vediamo tante. La pakistana a cui quando la dimetti dai anche 10 euro perché non sa come mangiare”.

 

Mai momenti di burnout? Voglia di mollare tutto?

 

“Tenuti a bada dal fatto che sai che le donne hanno bisogno di aiuto: se molli anche tu… un po’ di fatica, forse, quando arrivano certe signore “capienti,” che magari ti fanno anche il pistolotto: sa, noi siamo contrari, ma… Ecco, lì è un po’ più complicato”.

 

Prima dell’approvazione della legge 194 si parlava anche di depenalizzazione: ovvero, poter praticare l’Ivg in qualunque struttura, senza dover andare per forza in ospedale. E invece con la 194 fuori dall’ospedale l’aborto resta un reato.

 

“Anch’io avrei preferito la depenalizzazione.  Chi ha un’assicurazione o maggiori possibilità avrebbe potuto rivolgersi al privato, senza pesare sul SSN”.

C’è il clima per riparlarne?

“Non mi pare. Le donne fanno poco su questo tema, i movimenti non esistono più, i partiti non intendono occuparsene… E anche le ragazze mi sembrano acquiescenti, rassegnate ad “arrangiarsi”. Non è sempre stato così”

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

della Il drg Con Drg (acronimo di Diagnosis Related Groups, ovvero Raggruppamenti Omogenei di Diagnosi) si indica il sistema di retribuzione degli ospedali per l’ attività di cura, introdotto in Italia nel 1995. Il meccanismo Gli interventi vengono retribuiti non più «a piè di lista», cioè in base alle giornate di degenza, ma «a prestazione». In base ad una stima predefinita del costo. La storia Il sistema Drg nasce negli Stati Uniti, negli anni ‘ 80, quando ci si accorge che il rimborso a «piè di lista» stava portando all’ implosione del sistema, a causa dei costi insostenibili, perché più si teneva il paziente in ospedale più si incassava: con i letti sempre pieni e le liste d’ attesa infinite. La Lombardia È una delle prime regioni ad applicare il modello Drg. In principio i raggruppamenti sono molto generali. Poi vengono perfezionati: oggi ci sono più di 500 Drg. Vengono rivisti ogni due anni. Dal ‘ 95 siamo alla 23 esima riedizione. Un’ innovazione tecnica o tecnologica può richiedere il ritocco della spesa. La novità Per ogni intervento (dall’ appendicite al trapianto di fegato) sono previsti diversi gradi di rimborso, dal caso semplice a quello complesso. Per evitare truffe, dal 2008 ad un caso complesso non può corrispondere una degenza inferiore ai 3 giorni.

Donne e Uomini, femminicidio, Femminismo, jihad, questione maschile Agosto 28, 2015

Perché noi donne occidentali non facciamo niente per fermare lo sterminio delle Yazide?

Donne in vendita al mercato di Mosul

Da molti mesi veniamo raggiunte da tremende notizie sulla sorte di donne e bambine yazide, stuprate e vendute come schiave sessuali ai guerrieri islamisti, per i quali violare le infedeli è un atto gradito a Dio.

Circola anche un tariffario nei mercati siriani e iracheni: per le donne tra i 40 e i 50 anni si chiedono 50 mila dinari. 75 mila dinari per quelle tra i 30 e i 40 anni. Per una donna tra i 20 e i 30 anni, il prezzo è di 100 mila dinari, 150 mila dinari se è una ragazza tra i 10 e i 20 anni e 200 mila se è una bambina dai 9 anni in giù.

Quelle donne e bambine vivono a tre ore d’aereo da qui, e personalmente non ci dormo la notte.

Eppure l’altro giorno ho preferito non sottoscrivere una petizione di Telefono Rosa dove si dice:

Chiediamo all’Alta rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza Federica Mogherini e ai ministri degli esteri di tutti i paesi membri di rivolgere al segretario generale delle Nazioni Unite Ban Ki Moon, al Consiglio per i diritti umani dell’ONU e al Consiglio di sicurezza dell’ONU un pubblico appello affinché intervengano a sostegno del popolo yazida contro quello che è un genocidio, un vero e proprio stupro di guerra, un crimine contro l’umanità. Un “Ci dispiace” non ci basta”.

So che alcune amiche di Telefono Rosa non sono state contente della mia non-firma, per quel poco che conta, ma: 1. non amo il business delle petizioni online.2. all’obiezione: meglio una petizione che niente, rispondo no, meglio niente. Bisogna che ci guardiamo bene dentro, a questo niente, che lo interroghiamo senza metterci l’anima in pace, senza allontanarlo da noi con una firma.

Quindi mi faccio la domanda, e la faccio a tutte: perché tanta indifferenza per la sorte di quelle donne? Non è così, qualcuna potrebbe obiettare: nel web ci sono petizioni, prese di posizione, etc. Ma è innegabile che si tratti di voci isolate, flebili e inefficaci.

Provo a ipotizzare qualche risposta:

• perché non crediamo che stia davvero capitando, è una bufala

• perché, se sta capitando, è troppo lontano da noi, e non riusciamo ad empatizzare con donne che ci sembrano tanto diverse da noi

• perché a noi una cosa del genere non potrebbe mai succedere

• perché preferiamo non pensarci, è troppo orribile

perché occuparcene sarebbe dis-empowering, significherebbe in qualche modo riprecipitare in quella miseria e indebolirci tutte

• perché qualunque cosa noi facciamo, non servirebbe a niente

• perché siamo già sufficientemente oppresse dai nostri problemi

• perché non riteniamo sia prioritariamente compito delle donne occuparsi del destino di quelle donne

• perché non pensiamo di poterci sostituire ad altre nel loro percorso di liberazione: tocca a loro trovare la strada

• perché Isis è frutto degli errori dell’Occidente, meno interveniamo e meglio è

• perché proprio non ci importa nulla, se la vedessero loro

 

Lascio aperta a voi la serie delle risposte.

(qui alcune informazioni essenziali sulla religione Yazida)